ANCORA OGGI ECCELLENTE LA SUA MUSICA: un po’ datata (e velleitaria) la filosofia

Di Keith Jarrett – tra le tante cose - impressiona guardare, pur nella vastità della sua discografia, l’estrema prolificità di registrazioni effettuate negli anni settanta: evidentemente un particolare periodo di grazia creativa in cui operava in contesti diversi e paralleli, alternando le incisioni per la ECM in solitario o con il quartetto “europeo” (Garbarek, Danielsson, Christensen e lui stesso) a quelle sotto etichetta Impulse! con il quartetto cosiddetto “americano” cui si deve appunto questo DEATH AND THE FLOWER del 1975. Composto di tre soli pezzi (a sua firma), all’epoca dell’uscita fu assai lodato dalla critica e considerato un capolavoro oltre che per le singole frasi del materiale sonoro per la sorprendente capacità di suscitare una certa “atmosfera” molto in linea con i tempi. Erano quelli tempi carichi di spiritualismo (vedi nel folder interno dello stesso KJ la poesia «The illusion of death / The illusion of life» da cui prende il titolo il disco) oltre che profumati di esotismo. In più il buon Keith aggiungeva il suo tocco cameristico e lo spessore dei partner scelti per questo gruppo: Dewey Redman al sax, Charlie Haden al contrabbasso e Paul Motian alla batteria, i quali hanno modo e agio di mettersi ciascuno in evidenza. E ovviamente sostenersi nel dialogo reciproco (il duetto di KJ e DR nel brano d’apertura o quello con CH in «Prayer») e nei pezzi d’ensemble, dove peraltro non mancano i momenti belli tosti, come l’improvvisazione collettiva nella parte centrale di «Great Bird» (siamo pur sempre sotto etichetta Impulse! come dire una delle “mamme” del free jazz). Musicista aggiunto per l’occasione al quartetto Guilherme Franco, percussionista brasiliano, a dare qualche speziata nota di colore. Su tutti domina, ovviamente, la personalità e il piano a coda del leader: niente tastiere elettriche (già di per sé all’epoca un fatto rimarchevole vista invece la deriva in questo senso dei due altri giovani talenti del pianoforte, Herbie Hancock e Chick Corea). Il piano di Keith Jarrett dunque, ben ancorato alla “tradizione accademica moderna” di Debussy, aperto alle influenze minimaliste di Steve Reich e da queste verso certi richiami da world-music, eppure indubbiamente carico di jazz groove: valga per tutti nella title track il riff - accattivante come pochi - che alla fine della lunga introduzione stacca e cambia il passo del flusso sonoro. Tutti questi elementi hanno ben resistito al passaggio dei tempi e delle mode e ancora oggi ad un ascolto contemporaneo Death and The Flower si difende assai bene e si possono chiudere gli occhi sul velleitario impianto della poesia e sulla copertina un po’ pacchiana. Come dire, retrospettivamente Jarrett sempre eccellente come musicista, ma trascurabile come filosofo.

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