È giusto interpretare musica barocca con strumenti che all'epoca non esistevano? È giusto far risuonare un preludio scritto nel settecento come se fosse stato composto in pieno romanticismo? È giusto che uno dei più celebri pianisti jazz voglia osare spendendo il suo talento anche nella musica barocca? Domande senza risposta, magari un po' irritanti per i sempre ipersensibili puristi della filologia musicale. Domande a cui è forse meglio non ci sia una risposta, per lasciare che sia il suono ad accarezzare il nostro cuore, per una volta senza preconcetti, senza mediazioni.

Non sempre, c'è da ammetterlo, le incursioni del grande Keith nella classica sono state del tutto azzeccate. Basti pensare alla fiacca interpretazione delle Goldberg, dove alla terza-quarta variazione rimpiangi di non avere fra le mani un disco di Glenn Gould. Ma questo Händel è tutt'altra pasta, o meglio, tutt'altra anima, pervaso com'è di quella vivacità, di quella semplicità tutta terrena, di quella serenità e immediatezza che è tipica della musica (e dello spirito) del grande Sassone. La cui musica, ahinoi, è spesso seppellita da micidiali e ultra-filologiche "esecuzioni" (nel senso letterale del termine) che arrancano sotto coltri di polvere alte un dito.

Qui no. Qui è tutto limpido. A partire dalla scelta stessa dello strumento, il pianoforte, per risvegliare tutte le sfaccettature più nascoste e innovative della grandezza di Händel. L'interpretazione è costantemente ispirata, ma al contempo molto, molto rigorosa. E stupisce sempre che questo grande musicista così composto nella classica sia quello che poi grida o picchia sul pianoforte mentre ci delizia improvvisando.

Sotto le dita di Keith, questo Händel appare ora giocoso, ora malinconico, ora bucolico, ma sempre e tremendamente attuale nella sua musicalità. Splendida in particolar modo la Suite in fa maggiore HWV 427, con la sua vitalissima fuga finale, dove le varie voci in contrappunto si rincorrono fra loro rotolando come bimbi al gioco, allegri fra mille capriole. E da ascoltare soprattutto la Suite in la maggiore, HWV 426, con cui si chiude il disco. La parte centrale del preludio viene reinventata da Keith come fosse pieno romanticismo, con cascate di arpeggi a comunicare una sensibilità fervida e immaginativa, una inventiva, una forza, un intimismo da pieno "Sturm und Drang". E poi quell'inflessione malinconica della successiva "Allemanda", dove la musica si reclina in una dimensione intima e accorata, per risolversi infine nella allegria innocente e spensierata di una "Giga", in cui la gioia di vivere e di suonare traspare in ogni singola nota fino all'accordo finale.

Tutto semplicemente splendido. E questo Keith Jarrett barocco è geniale semplicità.

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