Prima era tutto più semplice. C'erano i dischi, le copertine, le cassette, e i compact disc. Prima c'era la sorpresa, si poteva conoscere un album, o un gruppo, anche per caso. Forse si era anche più ignoranti. Qualcuno ti registrava qualcosa, assicurandoti che era l'album più fantastico della storia, e magari era una ciofeca. Magari no. Ma si metteva su il disco e ci si entrava dentro, piano piano.

Ora ci sono i samples, la banda larga e, finalmente, il pubblico dominio su dischi che neanche chi li ha fatti se li ricordava... ma la sorpresa? Saranno passati una decina d'anni da quando ho registrato quest'album. Erano gli ultimi tempi prima della patente, e con la vespa era un freddo cane. Tornavo a casa ed in tasca avevo un cd e una cassetta scassata prestati da un amico. Quella sera mi aveva consegnato, orgoglioso, il cd di 'Afro Blue Impression' e, uscendo, gli avevo requisito anche questa cassetta dallo stereo di cucina. “L'ascolto la mattina, mi distende” mi aveva detto.

Solo dopo ho conosciuto un po' meglio la musica di Keith Jarrett, scoprendo che in realtà "Personal Mountains" è la registrazione di un concerto tenuto a Tokyo nel '79 dal suo quartetto scandinavo (Jarrett, Garbarek, Danielsson, Christensen), poco più di un'anticipazione a "Nude Ants". Una sorta di... appendice al contrario, tenuta nascosta negli archivi della ECM per 10 anni prima di essere pubblicata. Eppure su tutto aleggia un'alchimia quasi magica, un filo che lega le esecuzioni e le cristallizza in un momento preciso ed irripetibile. C'è unità di intenti, capacità di sintesi e una specie di stupore incantato che accompagna l'esibizione, incorniciata da un silenzio irreale e dagli sporadici applausi del pubblico. Un album, se non migliore, sicuramente diverso da "Nude Ants". La voce aperta, spaziosa del sax di Garbarek attraversa come sospesa il fitto tessuto percussivo delle composizioni disegnando con tocco impressionistico mutamenti e movimenti dell'animo, sobbalzi, salite, precipizi. Montagne, montagne personali (appunto). Un preludio lamentoso di contrabbasso anticipa la frase su cui si snoda “Prism”, ripresa e ampliata dal piano, e fissata dalla voce profonda del sax tenore che precede l'elegante assolo del piano di Jarrett, in cui inventiva e perfezione formale si fondono con stupefacente efficacia. Piatti e tamburi sottolineano le delicate dissonanze della lenta e crepuscolare “Oasis”, con la malinconica frase del sax condensata nello spazio di pochi minuti, a lasciarti l'impressione che se Kenny Barron avesse scritto “Sun Shower” in un giorno di pioggia, forse, avrebbe potuto suonare così: piovosa, autunnale.

Ma l'atmosfera continua ad essere tesa, il sax nervoso e il piano leggero, etereo, come appeso alla base ritmica. L’angoscia si scioglie un poco solo con la successiva “Innocence”, in cui un dolcissimo attacco di soprano introduce il tema, giocato stavolta sul modo maggiore e sulla cura dell'espressione e degli accenti, sottolineati dalla voce potente del sax e dalla sezione ritmica. Qui, come altrove nell'album, la vocazione percussiva del quartetto è più focalizzata ad evidenziare e sviluppare il flusso naturale dell'improvvisazione e dei pensieri, meno ossessiva che in "Nude Ants". Solo alla fine il blues leggero "Late Night Willie" riporta il concerto in una dimensione lieve e spensierata, con la freschezza e l'incedere divertito di un esercizio di dita, buono ad alleggerire la mente, e il cuore.

Eppure, arrivati alla fine dell'album, i 16 minuti iniziali della psicanalitica ”Personal Mountains” continuano a scavarti in testa, con quella frase nervosa e slabbrata del sax che cresce incontrollata, ondeggia, straripa sopra la base percussiva, lasciandosi dietro un senso di inquietudine che neanche il tenue finale riesce a cancellare. Una cosa ancora non l'ho capita... come faceva quel mio amico a distendersi co' sto disco, boh.

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