Le cose belle stanno diventando sempre più rare, infatti un tempo la bellezza veniva tutelata ed incoraggiata, perché l'esigenza di sentirsi bene era troppo importante per essere ignorata. Purtroppo oggi non è più così e le persone stanno perdendo (almeno in Italia) il gusto per certi prodotti dell'arte, i quali vengono troppo spesso ignorati e dati per scontati, soppiantati da una certa omologazione del pensiero che spinge ad una concezione sempre più totalizzante di ciò che è, o non è, artistico.
Fortunatamente, però, avere la possibilità di ascoltare qualcosa di prezioso fuoriuscire dagli altoparlanti del proprio stereo è ancora possibile, grazie a lavori di indubbia classe ed anima come questa nuova fatica di Keith Jarrett, un album doppio che, nella sua ora e mezza circa di musica, ci propone un artista veramente al massimo della forma: tecnico, fantasioso ed estroverso, capace sia di "correre" sulla tastiera che di "fermarsi" a riflettere, a far emozionare, attraverso note delicate come l'infrangersi della pioggia autunnale sulle ultime foglie ancora verdi e rigogliose. La cosa che più sorprende di un'opera come “Rio”, registrata il 9 Aprile 2011 al Teatro municipale di Rio de Janeiro, è la sua capacità di coniugare la musica cosiddetta “colta” con un approccio semplice e lineare, scandito da una suddivisione del concerto in piccole tracce (che a me piace pensare come movimenti di una lunga e splendida suite) di media durata, in modo da poter mostrare all'ascoltatore un caleidoscopio di ritmi, atmosfere e sensazioni sempre diverse, in bilico tra il riflessivo e il malinconico, senza dover per forza rientrare in certi schemi di coerenza che, nel caso di un blocco musicale unitario, si rendono pressoché necessari. D'altra parte è opportuno rammentare come la scelta di strutturare l'esibizione in vari microtesti non sia affatto nuova, infatti è già da qualche tempo che il buon Jarrett ha deciso di abbandonare le lunghe cavalcate improvvisate, che tanto hanno contribuito a sancire la sua fama a livello internazionale, in favore di un approccio più immediato ed assimilabile, una scelta che, probabilmente, scaturisce anche dai problemi di salute che hanno afflitto il pianista americano negli anni Novanta, i quali, pur non intaccandone minimamente la classe e la verve compositiva, hanno minato un po' la sua resistenza fisica, rendendo questo approccio al concerto meno stancante. Nonostante ciò, però, tutti gli elementi che hanno costruito, mattone dopo mattone, la notorietà di questo straordinario artista sono ben presenti ed udibili, infatti troviamo in apertura il classico Jarrett “cercatore di note” che, con movimenti nervosi, si muove sulla tastiera alla ricerca del ritmo, dell'accordo e dell'armonia adatti, trascinando nella sua “caccia” anche noi ascoltatori che, insieme a lui, soffriamo, sorridiamo e ci innamoriamo ogni volta che pigia un tasto o costruisce una melodia, contenti di avere il privilegio di poter ascoltare una musica come questa, scritta (o meglio: improvvisata) per far sognare e rammentare quei tempi in cui la ricerca della felicità non era un utopia, ma un obiettivo comune ed assolutamente condivisibile.
Siamo, perciò, davanti ad un concerto/viaggio? Mi sento di rispondere in maniera affermativa, in quanto ogni esibizione di Keith Jarrett è in qualche modo un percorso, dove lui sale sulle ali della musica e man mano costruisce la strada, mentre gli spettatori la calcano da dietro le sue spalle, creandone i panorami ed i contorni, in uno scambio continuo e interattivo, dal quale si generano sensazioni e colori unici, personali ed in qualche modo talmente differenti gli uni dagli altri da risultare quasi impossibili da descrivere a parole. Allacciandomi al discorso iniziale, quello relativo alla bellezza dell'arte, è proprio qui, secondo me, che si esplica il concetto di tutela e ricerca del bello, in un viaggio esperenziale in cui l'espressione artistica (nel nostro caso la musica) funge da locomotiva per i pensieri e le riflessioni, dove un accordo oppure una voce possono far scaturire emozioni così profonde ed innovative da travalicare l'individuo che le produce ed essere utili anche alla collettività, perché la mente, al contrario del corpo, non può essere imprigionata senza il suo esplicito volere, ed un pensiero libero vola più alto del cielo e non ha confini, se non quelli che esso stesso disegna. Volevo concludere la mia analisi ringraziandovi per aver letto il mio scritto e chiedendovi un ultimo piccolo favore: chiudete gli occhi ed immaginatevi in un luogo (arredato a vostro piacere) in cui siete seduti comodi e rilassati; davanti a voi c'è un uomo, magro e tirato, che suona uno splendido pianoforte nero, scuro e romantico come una notte serena.
Ora ascoltate le note che pian piano fabbrica e ditemi: non è bello essere vivi?
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