Nella vita capitano momenti magici, attimi in cui la tensione nell'aria si percepisce tanto dalle note quanto dai silenzi.

Secondi, minuti ed ore baciati da Dio, dal Fato o da quel che volete o pensate in qualche modo regni o guardi le povere nostre cose umane.

Che alcune volte povere non sono, ma paiono esser davvero un'evidente prova dell'esistenza di un qualche dio.

Quella sera lì, Keith, ha girato pagina.

Ha fatto quello che pochissimi sono in grado di fare nella storia della musica.

Ha deciso, senz'altro inconsapevolmente, che nel suo campo nulla sarebbe stato più come prima.

E certo questo non è il primo disco di jazz per solo piano che abbia saputo esaltare quel popolo strano ed entusiasta che da decenni già godeva della musica afroamericana su vinile.

Bill Evans, Ellington, Monk, lo stesso Jarrett, solo per nominarne alcuni, s'erano già misurati col "faccia a faccia intimo" col proprio strumento. Nudi. Senza rete.

E si ricordano dischi stupendi. Bellissimi, ispirati, rilassanti, entusiasmanti.

Ma non come questo.

Da questo momento lo stesso concetto jarrettiano di composizione estemporanea, come scuola, come metodo da affiancare al più classico ed eterogeneo concetto di improvvisazione, ha mutato se stesso e la storia della musica.

Da allora nessun disco per solo piano non può non misurarsi, consciamente o meno, volontariamente o meno, con questo.

Steve Kuhn lo sa bene, come lo sanno bene Paul Bley ed Abdullah Ibrahim.

E tutti loro producono, soprattutto ed anche ultimamente, prodotti splendidi, evolutissimi.

Ma son tutti figli, legittimi o meno, di questa notte di Colonia nella quale tutto è cambiato.

Ed è bastato mettere le sante manine sulla tastiera, appoggiarle e lasciarle andare, lasciare che quel mix divino di cuore, cervello e mani, si facesse trio con un mezzo solo.

E c'è l'anima, l'insondabile anima, come coautrice di tutto. Dei momenti malinconici, dei momenti quasi ballabili ed apparentemente (ma mai) easy, degli ossessivi ai quali Keith ci avrebbe poi, sempre, abituato.

Lui stesso tornerà spesso sul territorio della composizione estemporanea, sovente con risultati superbi (Parigi e Vienna sono quantomeno all'altezza), dando prova che di alunni in giro ce n'è tanti, ed anche di bravi, ma di Maestro ce n'è uno solo.

E pensare che, nella propria isoletta triste, c'è qualche pirlantonio (per dirla alla Jacovitti) che critica il Jarrett di "solo piano", e qualcun altro che tende persino a ridurre il ruolo storico di questo disco baciato dal Divino.

Verrebbe da citare un altro personaggino mica da poco, un altro che, questa volta col solo strumento della voce, ha girato una paginona bella grossa. Uno troppo spesso citato a sproposito: "Signore, perdonali, perché non sanno quello che fanno". In questo caso non sanno quello che pensano e che dicono.

Calarsi nell'epoca: primi seventies. In giro per la propria città. Conoscenza anche vaga del personaggio: insomma, ha suonato con Miles, dicono che è matto ma che è bravissimo, speriamo non sia inascoltabile.

Guardare per un po' questa copertina bianchissima in vetrina, con un uomo con testone afro che si piega in due sul piano.

Entrare, chiedere. Scoprire che è un triplo vinile. Spendere quel che è giusto spendere.

Andare a casa, socchiudere le luci. Prepararsi un bicchierino e magari un incensino.

Mettere il primo vinile sulla piastra ed appoggiarci la puntina.

Scattare in direzione divano e sedersi davanti alle casse prima della prima nota.

Sentirla, la prima nota, e capire subito e definitivamente tutto.

Capire, già da una nota, che Dio, quella sera, era da quelle parti.

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