“… Cinque anni dopo ci ho rimesso piede (ad un incontro con gli alcolisti anonimi) … e non riuscivo più a mettere il “non” davanti a quelle parole: “Mi chiamo Joe e sono un alcolizzato”... C’era una donna, una donna minuscola, tutta pelle e ossa, che parlava sempre con un filo di voce, e se ne uscì con una cosa molto semplice: “Se continuo a bere, mi condanno da sola”. E questo mi toccò veramente. Perfino nello stato in cui ero, e stavo di merda, eh, quella donna mi guardò dritto negli occhi e mi disse: “Ricordati che non sei solo”. Joe Kavanagh

Ogni tanto, quando mi sento solo e inutile per me e per gli altri, ho bisogno di guardare un film di Ken Loach. Mi fa sentire parte del mio banco di pesci e, così, ogni tanto, mi aiuta.

Questo perché i personaggi dei suoi film, che appartengono alla classe operaia o lavoratrice, cercano di stare a galla in un mare burrascoso e torbido, e l’unico modo che trovano per non affondare, è quello di non restare soli. Aiutarsi a vicenda, essere disponibili verso gli altri compagni che nuotano, preoccuparsi per chi non ce la fa. Così fanno i protagonisti di My name is Joe, senz’altro uno dei suoi film più belli.

Il protagonista, Joe, è stato un alcolizzato e vive lottando coi fantasmi del suo passato, dandosi da fare nel presente. Riceve il sussidio e allena una squadra sgangherata: i suoi giocatori sono come figli o fratelli per lui, se ne preoccupa: si incazza per loro, gioisce con loro. Li aiuta quando sono in difficoltà e, in questo racconto, in difficoltà, di quelle grosse, si trovano Liam, Sabine e il loro figlio Scott.

Liam e Sabine entrano e escono dalla dipendenza. Stanno lottando per farcela e al loro fianco c’è Joe, ma c’è anche Sarah, che è una straordinaria assistente sociale. Anche lei, come Joe, per stare a galla e non sprofondare in un passato che intuiamo complicato deve aiutare gli altri.

Joe e Sarah litigano per Liam, non sono due che si ritirano quando c'è da combattere per qualcuno a cui tengono, per qualcosa in cui credono. Così iniziano a conoscersi. E iniziano a nuotare insieme.

Mentre questi quattro e tutti gli altri cercano di andare avanti contro corrente, contro i fantasmi del proprio passato, c’è chi cerca di tirarli sott’acqua. è la banda di McGowan, lo spacciatore di quartiere.

Il film mi è piaciuto un sacco. La caratterizzazione di Joe, la cui interpretazione è valse il premio di migliore attore a Cannes per Peter Mullan, è calibrata benissimo: presentato nei tratti generali con le parole qui sopra, è un uomo passionale, in lotta per controllare senza spegnere queste emozioni. Nel corso del film, ciclicamente, perderà il controllo, lo ritroverà, getterà la spugna, attraversando tutta la gamma delle emozioni: vergogna e orgoglio, gioia e disperazione, rabbia e sconforto. Interiorizza queste emozioni Sarah, il suo corrispettivo femminile, ben interpretata dalla pressoché esordiente Louise Goodall. Come lei anche David McKay e Anne Marie Kennedy sono attori esordienti che avevano vissuto sulla loro pelle una vita in un contesto simile a quello in cui vivono Liam e Sabine.

E’ eccellente, insomma, la sceneggiatura di Paul Laverty, capace di fare emergere la speranza e insegnare i sentimenti attraverso una storia estremamente drammatica

Per questo ritengo che la visione di My name is Joe non sia solo consigliata, ma assolutamente necessaria.

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