Te ne stai seduto lì, vicino al Griffith Park, nel cuore della notte losangelina. Insieme al tuo fido compagno, l'Osservatorio, sovrasti la veduta aerea di LA, la Città degli Angeli che il buio però fa apparire tutt'altro che rassicurante. Una panchina, un gelido vento e mille pensieri. Potevi essere sulle Woodland Hills, con il Topanga Park che ti portava scosceso com'è dritto al luccichio di Malibu, eppure sei lì, inerme, che fissi in lontananza Downtown LA. Con quei suoi grattacieli, così imponenti nell'arida notte, da apparire come dei giganti nel nulla più apatico dell'architettura che si sprigiona disperdendosi in un'estensione vertiginosa. Si è lontani dalle gabbie in cemento che stritolano Manhattan, ma come New York City pure Los Angeles è un meltin' pot contraddittorio. Nel suo esser così sterminata puoi sentirti come Vinz e il suo amico Hubert ne La Haine. In cima al tetto di una palazzina in periferia, a fissare una Parigi notturna. Una formica persa nel microcosmo. Ecco, tu non sei in Francia. Sei in California e la notte si fa parecchio più disturbante di quanto la mente di Lynch aveva partorito nella limitrofa Mulholland Drive. Il tuo nome è Kendrick Lamar e sei un kid from the hood, come tanti altri, nati nel segno della scena rap/hip-hop West Coast.

Prendi la tua vecchia Cadillac, attraversi la città. Così vuota, così deprimente. Negli incroci vedi solo piccoli negozi aperti 24h che vendono di tutto. I marciapiedi e le banchine dell'autobus sono casa per i senzatetto o per i junkie girovaghi della notte. American Dream, ppfff, sorridi amaramente. Costeggi Sepulveda Boulevard, ti scorrono sfocate e imprecise l'una dietro l'altra Marina Del Rey, Hermosa Beach, in grado di diventar anonime e solitarie in un batter di ciglia. Cambi rotta, non ti va di raggiungere il capolinea di Long Beach. Potresti risalire su verso il centro, allontanandoti dal Pacifico, cercando di andare ad ammirare da vicino quella raggomitolata skyline che da lontano ti ricordava una reggia. Un conglomerato di uffici, banche, luci a intermittenza che con i freddi neon illuminano strade deserte. Arrivi lungo Figueroa Street, lì allo Staples, dove gioca Kobe ogni sera con i suoi Lakers, dove a pochi passi le celebrità sfilano al Nokia Theatre e accanto ti ritrovi il palazzone ESPN, network sportivo per eccellenza: dovrebbe esser tutto luccicante, come in un sogno. Illusorio. C'è il nulla. A due passi potresti entrare in Skid Row, un posto dove ti consigliano di metter il giubbotto in kevlar a certe ore della notte. Tu, Kendrick, ti senti vicino al disagio esistenziale di quel neighborhood, ma vivi un po' più a sud, sempre nel cuore di Los Angeles: The Hub. Hub City. Compton.

A un certo punto dovrei parlare anche del disco. Di musica. Di questo "Section .80", uscita indipendente che ha anticipato la veloce consacrazione di "good kid, m.A.A.d city". La verità è che non ne sono capace. E allora perché lanciarmi in una recensione di un disco rap ? Penso per uscire dalla comfort zone. Massì, dai. Ogni tanto ci sta. E in più è lo story-telling. Il fottuto story-telling. E' una cosa che mi affascina troppo e si dà il caso che il buon Kendrick ne sia maestro. Racconta la storia di Los Angeles, di Compton. Anzi, Compton non è Los Angeles. Compton è Compton. Territorio dilaniato da guerre intestine fra gang: i Surenos, i Bloods, i Crips, dove ragazzini che ti sorridono nel banco accanto dell' High School divengono rapidamente tuoi amici e con altrettanta velocità non sai se faranno in tempo a vedere la fine della giornata. Un drive-by-shooting, l'essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Bloodlines che s'incrociano e ti segnano a vita. E dalla finestra della tua stanza che guarda su Rosecrans Avenue speri in un futuro migliore. Magari seguendo idoli sportivi che riescono a vincer borse di studio per le prestigiose UCLA e USC, per cercare una carriera professionistica nel basket o nel football americano. Oppure nei momenti peggiori ti basterebbe tagliare a metà Inglewood per raggiungere il LAX, prender un aereo e cambiar vita. Ma tanti, troppi, non possono farlo. Voci soffocate che vanno raccontate, che cercano nella difficoltà di mantenersi su una linea retta. Una povertà che rende difficile il non cadere nel tranello della perdizione e della facile criminalità di strada. Kendrick narra. Con un flow straordinario. Unico.

Il mattino ti alzi, lasci che la sottile nebbia di smog si dirada per aprire a quello che si potrebbe dire essere uno dei più classici cieli azzurri californiani. Prendi lo skate, vai a Venice, osservi i ragazzini fare i loro trick e acrobazie, senti il rumore incessante delle rotelle sull'asfalto, il chiacchiericcio e gli slang che si disperdono a profusione nell'aria. Una generazione, magari pure coetanea che troppe volte hai visto rimaner distrutta dall'abuso di droga, dai falsi miti, divisa in ridicole faide etniche. E perché non metterlo in chiaro subito: "Now I don't give a fuck If you black, white, asian, hispanic, goddamit. That don't mean shit to me, fuck your ethnicity, nigga". Kendrick è così. A raffica ti sciorina aneddoti, dove sacro e profano si mischiano, come in copertina. Proiettili e bibbie, un po' stereotipate, sì, non lo si mette in dubbio, ma con un fondo di verità. Non puoi non ripensare alla Ronald Reagan Era negli anni '80 quando la tua Compton era, come si può dire, messed up. Dove le sirene delle polizia erano ciò che ti faceva addormentare e la cocaina dilagava in ogni giardino del boulevard. E' un continuo esser in bilico fra moralità e immoralità, superare le avversità o abbandonarsi alle tentazioni, tanto magari hai gli zii che finiscono in carcere, il papà che fatica a reggere le ore di estenuante lavoro e nel frattempo devi cercare di proteggere la tua sorellina. E' opprimente pensare con che facilità un giorno potresti finire dietro le sbarre al Twin Towers. Una semplice biforcazione da scegliere quando sei ancora un adolescente. Le relazioni andate male son cose ordinarie, delle gocce insignificanti in un quartiere che ti lascia affogare. L'unica è quella di saper reagire, trovar l'ispirazione per venirne fuori. "Section.80" è anche e soprattutto questo.

Sì, dunque, dicevamo...la musica. Boh, ecccccheneso. Non so spiegare beat, basi, ritmiche o quant'altro. So solo che mi ricorderò per sempre di un ragazzo su un Big Blue Bus di Santa Monica con cui scambiai due chiacchiere in viaggio e mi disse che dovevo assolutamente ascoltare il nuovo disco di questo Kendrick, di come era assolutamente una bomba. Parlammo d'università, mi disse che non aveva soldi per frequentarla. Neanche la sua famiglia con doppi lavori poteva permettergli di proseguire gli studi. Aveva uno sguardo rassegnato, occhi spenti, ma continuava a rimarcarmi come questo Kendrick raccontava a suo modo la verità. O meglio, uno spaccato. Uno scenario di un mondo dimenticato, ma che a Los Angeles lo respiri a ogni angolo, bruciando aree sopra aree. Dal disfacimento di Union Station raggiungendo lo sfarzo patinato di Bel Air. E' la cruda realtà sub-urbana espressa al suo meglio, in un dualismo angoscioso fra monotonia e speranza. Cercava di dirmi questo su Kendrick quel ragazzo. E gli diedi retta. La sera mi procurai questo "Section .80" e fu amore a primo ascolto. Legame istantaneo. Magari varrà 1 stella, per me sarà sempre 5. Next stop: Wilshire Blvd.

You gotta get up off your ass and get it, man.

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