Kenny Larkin è uno degli esponenti più melodici della scena techno di Detroit, spesso decisamente meno 'sponsorizzato' rispetto a colleghi ben più noti, quello che è certo è che ogni parto di quest'uomo è garanzia di grandissima qualità, capolavori che ne hanno fatto comunque uno degli artisti più importanti e rispettati.

La sua è una techno angelica, dai toni intimi e rilucenti, si respira il funk nei suoi dischi, si respira il soul più puro, come se la grigia motor-city venisse per un attimo riletta in una sorta di eden, paesaggistico e musicale. Lande di gioia e pace dove le soavi tele di Larkin aleggiano nell'aria, mai così pura, mai così umana, dove i residui industriali e quell'alone di vapore rappresentano soltanto uno sbiadito ricordo. Convinto sostenitore, come la quasi totalità delle teste techno di Detroit, dell'analogico, il suo è di riflesso un suono caldo e avvolgente, in alcuni casi vicini all'ambient-techno iper-organica del periodo - non a caso il disco in questione esce per la Warp - in altri persino orchestrale, palpabile con mano, come solo i più grandi sintetizzatori e le più storiche drum-machine - ovviamente se supportati dietro da un maestro della melodia quale è il buon Kenny, sanno essere.

E' il celebrato "Azimuth" il manifesto assoluto del suono di Larkin, una delle cose più belle venute fuori da Detroit, e ce ne vuole per scegliere in un panorama che ha saputo offrire, a larghissime dosi, quelle che sono tuttora tra le migliori storie dell'elettronica tutta. Chiaro, anche le releases successive, come già detto, costituiscono gemme immancabili, con annesse interessanti variazioni sul tema come lo scuro e visionario "Metaphor", ma è questo del '94 l'album dalla cosiddetta marcia in più: emozionante, profondo, un suono vellutato come il miglior Carl Craig, ma al contempo vicino alla scienza groovistica di Jeff Mills, casse spesse che manco il Robert Hood più duro, ma mai invadenti, come del resto le ritmiche, dai suoni corposi e metallici, ma che viaggiano sempre in punta di piedi, sinuose e leggiadre. Più semplicemente Techno spirituale.

Se Carl Craig è stato più volte appellato col pesante ma tuttosommato calzante nominativo di Miles Davis della techno - sebbene io attribuirei tale nomignolo al più eclettico e visionario Jeff Mills (ma questo è un altro discorso) -, Kenny Larkin lo possiamo paragonare a sua maestà John Coltrane, e non per quella faccia da piacione, la pelle nerissima o lo sguardo gelido e penetrante, bensì per la musica, la loro arte, che arriva dal profondo dell'anima per dirigersi a terze, di anime, dove il suono diventa un tuttuno non solo con l'artista, ma anche con l'ammaliato usufruitore di esso. Un suono che assume toni talvolta sacri, vette imponenti di 'umanità', che sa distinguersi per gettarsi, spesso e volentieri, in quell'elemento che è ossigeno della techno come lo era del jazz più nobile: la sperimentazione.

"Azymuth" è un viaggio, un sogno ad occhi aperti, un'opera senza tempo che mai e poi mai risente degli effetti spietati di quest'ultimo, per un ora di distacco dal mondo, non solo da Detroit. Maestoso.

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