Di morto, in questo sesto album dei Kent, c'è solo l'io del titolo. Si parte da quella che è con ogni probabilità la copertina più brutta dell'intera discografia della band svedese, che dopo aver definitivamente accantonato ogni mira di espansione verso i mercati europei produce un lavoro permeato dai toni bui provenienti dal lato oscuro della Scandinavia. I testi di Joakim Berg si fanno sempre più criptici e personali, tanto da renderne complicata l'interpretazione se non mettendosi nei panni di un imbranato che vede i fantasmi del ferro. Ora, se questa piccola premessa probabilmente basterebbe a far ignorare il disco a quegli ascoltatori che necessitano dell'insegnante di sostegno, quello che in realtà è contenuto nelle 11 tracce del black album dei Kent è uno dei lavori più emozionanti ed interessanti del decennio appena concluso.
Il compito di aprire le danze macabre tocca alla tempestosa "400 Slag" e ci si rende subito conto della qualità del prodotto, con gli strumenti che fanno il loro ingresso uno ad uno, in rigorosa fila indiana, basso, batteria, seconda chitarra, prima chitarra, tastiera, quasi a volersi presentare reclamando ognuno il proprio spazio per poi disporsi seduti al loro posto in attesa di ordini dalla voce imperiale di Joakim Berg, che nei primi ritornelli fa venire invidia a chiunque aspiri a diventare cantante di una band e che quando urla, quasi dolorante, al termine della canzone sembra di sentire nelle ossa tutto il freddo tagliente della Svezia. L'impressione che si ha è che i Kent abbiano capito tutto, e che di questo tutto ora stiano insegnando il concetto di come deve iniziare un disco rock.
Si prosegue con la ferrosa "Du Är Ånga", tu sei vapore, e la cristallina "Den Döda Vinkeln", prima di avere il tempo di rifiatare un minimo con la più leggera "Du Var Min Armé", dagli arpeggi che sembrano pizzicati da una ballerina in punta di piedi. Si passa poi a "Palace & Main", probabilmente il pezzo più radiofonico fra tutti, dove radiofonico però non coincide con banale.
A questo punto i toni cambiano, la seconda parte del disco è attraversata dal sentimento della mancanza, della perdita e della lacerazione dei sentimenti, con conseguente nostalgia. Fredda nostalgia, per intenderci. L'atmosfera da qui diventa più intima, riservata, vulnerabile: "Järnspöken" è un meraviglioso intermezzo fra primo e secondo tempo, di quelli che resti ad ascoltare seduto in sala anche se muori dalla voglia di uscire a fumarti una sigaretta; la sola chitarra acustica arpeggiata lentamente accompagna un canto malinconico e pensieroso, una visione del passato in un mattino d'inverno svedese. "Klåparen" è più sostenuta ma solo musicalmente parlando; l'imbranato del titolo è debole e perso fra le visioni offuscate di luci lontane verdi, rosse e gialle. "Max 500", all'ottavo posto, è forse l'episodio meno interessante di tutto il lavoro; stranamente scelto come singolo di lancio è in realtà un pezzo abbastanza anonimo, che sfigura se affiancato per esempio alla sua succeditrice, tremenda e sublime, "Romeo Återvänder ensam", un vuoto insieme di visioni blu notte di un triste Romeo che torna da solo verso casa attraverso le strade deserte fatte di finestre chiuse e porte serrate; qui Joakim Berg gioca con se stesso, Joakim chiama e Berg rispone in un canto e controcanto che donano alla canzone un gran senso di disperazione per una Juliet mai nominata ma ormai sepolta nella sabbia del mare d'inverno. "Rosor & Palmblad" si presenta come penultima traccia rincarando la dose, stavolta una lenta melodia intrinsa di ricordi che piano piano si trasforma quasi in una marcia funebre in onore delle gioie che furono e che ora il presente si è divorato in attesa del dolce. Si arriva così all'ultima traccia che da sola potrebbe valere l'acquisto del disco con un assegno in bianco: "Mannen I den vita hatten (16 År senare)" è una di quelle canzoni che possono stare solo alla fine, alla fine di tutto. Non per niente sta anche alla fine di ogni concerto dei Kent dal 2005 ad oggi. Un arpeggio pelleossa che si trasforma in pochi secondi in tempesta, con tutto il passato che ne viene tirato in mezzo. Le note sono abbracci, lacrime, momenti che vengono strappati dalla memoria e fatti risalire in superfice, ansimanti e presenti per ricordare qualcosa che non torna più, tutta la canzone è un movimento di attimi e di ricordi che scivolano via prima che le due ultime strofe li scuotano come farebbe un uragano per farli danzare tutti assieme, memorie e fotografie di gente che lavora, ride, guida, canta, si sposa, vola, scrive, piange, splende, pensa, viaggia, attraversa la strada, finge, legge il giornale, balla, si sveste, vende dischi, si ammala, esce di casa, corre, si droga, attacca post-it, si consola, morde, accarezza, si perde, ama, indossa una camicia, governa, si fa aria, perde il treno, prega, si dispera, si ammala, inventa, disegna, lancia una moneta, conta, colora, decide, ricorda. E alla fine la canzone termina con un lapidario, fermo, monumentale, inevitabile "Moriremo tutti un giorno", sentenza ferma e statuaria, unica vera certezza di ognuno.
Questo disco chiude un pezzo di carriera dei Kent, una di quelle band a cui è bene stringere la mano ed è d'obbligo accettarne il biglietto da visita anche solo per il fatto di esser sempre riuscita a reinventarsi e rimettersi in discussione evolvendosi e mescolando i generi, non per seguire le mode ma per obbedire al naturale proseguimento della loro crescita, da infanti indie rock a misteriosi grand'uomini elettronici, come testimoniano le produzioni giunte fino ai giorni nostri (chi scrive vive i giorni suoi al termine del 2010).
Degne di nota sarebbero anche le numerose b-sides escluse da questo disco, ma il rischio è quello di dilungarsi troppo. Un solo suggerimento, chiuso in una lettera, per chi avesse curiosità: M.
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