Kevin Gilbert era un genio. Ma come a volte accade ai geni, se n'è andato quasi inosservato, noto solo agli addetti ai lavori e ricordato quasi esclusivamente per essere stato il boyfriend di Sheryl Crow (e probabilmente il principale fautore del suo successo). E' morto ormai 12 anni fa, il 17 maggio '96, a 30 anni non ancora compiuti. E oggi di lui ci rimangono un pugno di lavori, a testimoniare un talento clamoroso, tra il cantautorale e il prog ma comunque difficilmente ristringibile negli steccati di un genere.

Nato a Sacramento, vissuto tra il New Jersey e la California, fu folgorato dalla musica fin dalla fase della preadolescenza ("mangiava sempre meno, dormiva poco, leggeva molto, componeva di più" scrive il fratello Greg nelle note biografiche del sito www.kevingilbert.com. per raccontare Kevin tredicenne). Da lì al tragico epilogo, sedici anni in cui Gilbert imparò a suonare (chitarra, tastiere, percussioni e tanto altro, fu anche un tecnico del suono apprezzatissimo oltre che turnista molto ricercato), cantò con quella sua voce calda e appassionata, costituì e sciolse varie bands, tra cui i Giraffe con i quali, al Progfest del 1994 a Los Angeles, fu protagonista di una straordinaria riproposizione integrale del capolavoro dei Genesis, The Lamb Lies down on Broadway, uscito vent'anni prima, che gli valse, secondo leggende metropolitane mai confermate, addirittura un provino (mai realizzato) con Tony Banks e Mike Rutherford per diventare il nuovo vocalist genesisiano dopo il primo abbandono di Phil Collins. Proprio dall'agnello di Peter Gabriel si può partire per affrontare questo The Shaming of the True, un concept al quale Kevin stava lavorando da tempo al momento della morte e che fu portato a termine solo quattro anni dopo, nel 2000, grazie alla passione degli amici John Rubin e Nick D'Virgilio, batterista e vocalist fra l'altro negli Spock's Beard (band di cui Gilbert era stato tecnico del suono).
Nel disco, 14 tracce per oltre un'ora, c'è molta autobiografia: il protagonista è Johnnie Virgil, un aspirante rockstar che ricorda molto il gabrieliano Rael, vittima dei demoni di una società malata e di un'industria discografica che fagocita chiunque entri nei suoi meccanismi. Johnny raggiungerà il successo ma ritroverà la pace solo grazie alla fuga, "Way back home", un ritorno a casa che gli viene indicato da una sorta di profeta pazzo nell'amore. Happy ending che Kevin non raggiungerà mai, purtroppo. Musicalmente il disco è difficile da inquadrare: c'è il prog, ci sono le chitarre arpeggiate e i passaggi di moog, in alcuni passaggi le atmosfere, soprattutto le trame chitarristiche, occhieggiano i King Crimson (la voce di Gilbert ricorda a mio parere quella di John Wetton, ma non mancano echi di Bowie e di David Sylvian). Il tutto con una spruzzatina di AOR e un assaggio di funky (e i fiati, apparentemente estranei al contesto, vi si adattano invece alla perfezione). Ma al di là del genere, l'unicum testo-musica che si crea ascoltando questo lavoro è davvero affascinante, merito di un artista mai risolto ma dal talento cristallino. Le perle? Difficile scegliere: forse la sofferta Certifiable number 1 smash, un rock molto carico con riff di chitarre quasi hard e un testo dolorosissimo. Sicuramente la splendida Way back home, con quell'apertura alla speranza costruita su atmosfere molto soft che richiamano i lavori solisti di Peter Gabriel.

Un disco che, a mio avviso, potrà anche non piacere, ma di sicuro non può lasciare indifferente tanto è ispirato, sofferto, doloroso, VERO. E anche tecnicamente un gioiello, il che non guasta.

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