Kevin Smith è stato l'autore ribelle che con due lire ha girato "Clerks" (1994), gioiellino indipendente di rara forza sferzante, capace di aprirsi un varco nel complicatissimo mondo dell'underground filmico a stelle e striscie. Personaggio fuori dagli schemi, estremamente critico contro politica, convenzioni ed establishment politico, con "Dogma" (1999) ha ulteriormente ampliato la platea dei suoi haters. Nel 2010, dopo "Poliziotti fuori", film ignobile con Bruce Willis, Smith ha addirittura pensato di lasciare quel mondo cinematografico da cui non è mai stato ben visto. "Red State" (2011) doveva essere la sua ultima opera prima di una pausa di riflessione che poi, grazie anche al riscontro di critica, non c'è stata.

Smith cambia genere e si lascia dietro le spalle quella "commedia politica" e personale che aveva contraddistinto i suoi primi lavori. "Red State" è un thriller durissimo che narra la storia del pastore Abin Cooper (un sontuoso Michael Parks), leader di una setta religiosa cristiana che vede nelle "perversioni sessuali", gay su tutti, la causa della degenerazione della società. Tre giovani studenti finiscono senza saperlo nelle grinfie di tali folli e il poliziotto Keenan (John Goodman) viene incaricato di risolvere la questione, nel momento in cui gli appartenenti a questa setta si barricano in casa, riferimento e omaggio a "Distretto 13" di Carpenter.

Smith come detto cambia genere ma il suo sguardo è lo stesso accusatorio e devastante di "Dogma": lì era l'ironia contro la religione, quì è la violenza assoluta in una sorta di messa in scena di cosa c'è realmente nelle "sacre scritture". Abituati al fondamentalismo islamico, l'orrore di quello cristiano sembra non appartenere alla realtà in cui viviamo. A questo tipo di durissima critica si aggiunge quella alla facilità di reperimento di armi negli USA, pallino di un altro come Michael Moore. Il nemico esterno, tanto caro alla politica USA, è sempre più spesso nemico interno e le armi sono il modo con cui un normale cittadino diventa carnefice. Il terzo livello di attacco alla società americana arriva con lo schiaffo alle forze di polizia a cui viene affidato il compito di risolvere la situazione: Smith mette in scena funzionari che fanno fuori possibili testimoni, altri che non sanno neanche che lavoro fanno e soprattutto la scelta finale di chi impartisce gli ordini, pronto a salvare se stesso e la propria immagine e carriera piuttosto che la vita degli esseri umani che dovrebbero difendere.

In "Red State" non c'è un vero protagonista e la sceneggiatura va avanti a scaglioni: prima entrano in scena i tre ragazzi che saranno l'esca del racconto, poi arriva il "sacerdote" pazzo di Michael Parks e infine arriva il faccione statale di John Goodman. Sono tre diversi orizzonti e tre rappresentazioni che Smith lapida con il suo cinema acuto e politicamente scorretto. Dai giovani tutto alcol e pronti anche al sesso facile con racchie chiuse in roulotte, alla religione intransigente fino alla violenza, allo stato incapace, colluso e impunito. Un condensato di brutalità e accesa critica a quell'America deflagrata che Smith ha sempre sbeffeggiato, a partire dal fulminante "Clerks". L'utilizzo quasi fastidioso e sobbalzante della camera a mano rende simil mockumentary una storia che proprio per questo appare ancora più realistica, in cui gli uomini non hanno nulla di umano, nulla di quegli insegnamenti cristiani che dovrebbero essere il fine ultimo degli ambienti religiosi messi alla berlina dal film.

"Red State" è il lavoro che ha rilanciato la carriera di Kevin Smith, nonchè la sua opera più devastante, straniante e cattiva, che ha tracciato un nuovo corso filo-thriller di cui è emanazione anche il recente "Tusk". Neanche a dirlo, "Red State" in Italia non è mai arrivato nelle sale...

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