Una bella tavolata: rumorosa, eclettica e variopinta. Dicono i creduloni della cabala che tredici porti sfortuna, iella o sfiga. Invece quel numero di commensali riunitasi quasi per gioco in una serata primaverile del 2005 creò un’atmosfera cangiante, ilare e particolarmente accogliente. Come sovente accade in tali occasioni amarcord il ritrovo era stato organizzato da un paio di persone ("Dilemma" e l‘enigmatico "Pau de Arara"): i più energici del gruppo. Quelli rimasti maggiormente aggrappati ai bei tempi andati. Degli Angra. Manca solo la voce di Matos in quei grovigli di sei corde, ritmi polipeschi e folclore per tornare indietro di quasi 10 anni.
La più bella, "Choro de Crianca", è seduta nell’angolo; quasi in disparte come se questa sua posizione relegata la potesse proteggere dagli sguardi. Timida, schiva e minuta; alta un minuto scarso quando alza gli occhi e parla incanta. Sembra di stare all’interno del cuore ligneo della chitarra acustica; le note rimbalzano nitide tra le pareti e appagano in toto tornando nelle orecchie. Vorremmo parlasse ancora e invece sta lì, proprio in fondo al cd e non si alza più. Il suo vicino "Endangered Species" cerca di farsi notare raccontando uno dei suoi aneddoti esagerati e divertenti. Parole e gesti, assoli in scala e batteria, quasi inciampano rincorrendosi in un crescendo. Prende fiato, per aumentare l’attenzione, con ritmi etnici: da una bella sorsata alla pinta e riparte con maggiore forza fino alle risate del finale estetico con sweep selvaggio e riffing serrato un po‘ fine a sé stesso. La cena prosegue. C’è tempo per creare atmosfera leggera, senza forzature e pressioni. "Escaping" è capace di scioglierti con suo sorriso e stasera, per fortuna, deve aver bevuto un po’ troppo. I suoi incisivi, meravigliosa visione, si vedono di continuo ben evocati da linee melodiche fluide di assoli legati e ricamati ad arte. "Beautiful Language" raffredda il tutto gettando melanconici ricordi sulla tavola in legno curvato e nodoso. Ecco fondersi elettrica e acustica con sugose maracas a fare da contorno. Lui invece è sempre stato strano. "No Gravity" si diverte a stuzzicare i commensali lanciando palline di carta a destra e a manca: il pizzicare delle corte, il fraseggio in stretti allegri accordi. "My Dark Tranquillity" fisicamente è lì con loro, ma sembra che con la testa sia in un’altra dimensione: quasi non mangia e con un tapping delizioso e minuto canta il suo vivere misterioso, ambiguo ed intrigante. Ed eccolo proprio al centro "Enfermo": trangugiava sempre caffè a iosa ed infatti è impaziente. Sembra un marito fuori dalla sala parto. La sua gamba continua a muoversi: controtempi mai domi per un pezzo sinuoso, un serpente, indomabile capace di alternare ripartenze a frenate continue.
Ascoltare un cd strumentale è un po' come guardare alla tv, per esclusivi motivi di tifo nazionale durante le olimpiadi, una gara di tuffi, ginnastica artistica o tutte quelle competizioni nelle quali l’originalità è relegata ai minimi termini e dove quello che conta è lambire la perfezione. Non mi regala nessun sussulto. Per quanto difficili e fuori dall’ordinario siano le evoluzioni mi sembrano prive di senso e la loro astrusa ed oggettiva complessità si mescola e banalizza in movimenti più o meno fotocopia di atleti in serie pronti a replicare quanto sbagliato o azzeccato dal concorrente precedente. Manca l’aria, non c‘è spazio. Cambio canale.
I cd dei cosiddetti guitar hero sono per me all’incirca la stessa cosa. Evoluzioni, dita veloci che corrono sul manico della loro sei corde ultrapatinata per ghirigori sempre più sbalorditivi e puliti. Praticamente un DVD di palleggi di un giocatore di calcio brasilero. Una spremuta di sbadigli. Mi perdonerete quindi se ho dato per scontato che l’autore del disco che vi ho già descritto, Kiko Loureiro degli Angra, sapesse far viaggiare le sue dita con una certa dose di maestria. Questo non è il fulcro, ma il sine qua non per cimentarsi in genere così chiuso e sboronico.
Ritengo che i complimenti migliori per un’opera non siano quelli degli invasati/ciechi fans, ma al contrario siano quelli che provengono, inaspettati, da chi nella maggior parte dei casi è allergico a quel tipo di sonorità. Gli altri cd strumentali li ho cestinati, persi oppure saranno lì o là sotto un bel po’ di grigia coltre che ormai si è intonata con l‘ambiente. "No Gravity" svetta e sbalordisce me stesso ogni volta perché sono trascorsi quasi 5 anni. Non sono pochi in quanto per un cd bastano pochi mesi per passare dal rosso passione al grigio indifferenza. La voce può essere un comodo appiglio al quale aggrapparsi: quando le melodie non convincono completamente una bella interpretazione può smussare le lacune, come la recitazione di un attore in una sceneggiatura leggermente zoppicante. Il fatto che con una certa frequenza nel lettore questo "No Gravity" ci finisca sempre mi meraviglia. E’ capitato oggi, alle 6 di mattina, mentre andavo a cercare quella X scelta sulla cartina a casa per iniziare la mia nuova escursione invernale. Così, tra un tornante e l’altro, una manovra fra la neve ghiacciata e un’imprecazione per la lumaca di turno il disco ha fatto una capriola e mezzo su se stesso prima che inforcassi scarponi e pelli di foca per godere di una sciata nel silenzio. Kiko non fa il pavone, la modella in discoteca e non si esibisce in una tracklist himalayana. Alterna bastone e carota, un pizzico di allegria e melanconia. Per fare ciò usa la sua elegante tecnica fatta di tapping, sweeping e l‘arpeggio senza dare l'impressione di esibirsi per ricevere mera acclamazione per il gesto tecnico. Con intelligenza non si appoggia ad una drum machine come bastone, ma si assicura la camaleontica quercia Mike Terrana capace di dare forza ai vari break che costellano questo disco.
Detesto il genere, ve lo consiglio.
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