Interessanti e – al solito – misconosciuti questi Killing Floor, ma poco male. Ognuno di voi sa quanto sia importante per questo recensore, riesumare tutti quei talenti incompresi che gli déi del rock hanno lasciato nel dimenticatoio. Ma a dir la verità, stavolta ci sta dentro anche qualche demone del blues…

I Killing Floor si formarono a Londra sul finire degli anni sessanta. A guidarli, il preparatissimo chitarrista Mick Clark e il cantante/armonicista Bill Thorndycraft. La band fu poi completata grazie a un annuncio su Melody Maker (vecchio settimanale che circolava nel Regno Unito già dagli anni ‘20 ). Furono ingaggiati il bassista Stuard McDonald, il pianista Lou Martin e il batterista Buzz Smith. Il gruppo dimostrò subito grande sintonia e impeccabile tecnica esecutiva, specialmente nel corso di un’intensa attività live nei locali londinesi, affiancando nomi come Yes e Captain Beefheart. La cosa non passò inosservata, tant’è che la Swank decise di pubblicare il primo omonimo album che ricevette il plauso dalla critica, ma non il tanto sperato successo commerciale. L’album è tuttora una pietra miliare dell’hard blues, e mette bene in risalto la validità e la maestria della band; nello specifico, l’incredibile pianista Lou Martin, il guizzante basso di McDonald e naturalmente la strepitosa chitarra di Clark.

Lo scarso interesse del pubblico verso il primo validissimo disco, spinse i Killing Floor a incidere subito del nuovo materiale, contenuto in questo Out of Uranus – registrato nel ’70 e pubblicato nel ’71 – che suona un po’ diverso dal suo predecessore, anche a causa della voluta assenza del pianista Lou Martin. Per Out of Uranus, la band optò infatti per una vena più hard, con pezzi più scarni e aggressivi rispetto a quanto sentito in precedenza: una convinta virata verso il rock più puro, unito a misurati sbocchi hard blues e qualche tenue zampillo psichedelico. L’intento era di pedinare le mode sonore del momento, cercando perciò di seguire le tracce di tutte quelle band che stavano contribuendo all’avvento della musica pesante. Un esempio su tutti: Led Zeppelin!

Ascoltando Out of Uranus, è infatti evidente come i primissimi dischi del “dirigibile”, avessero profondamente segnato le orecchie di Clarke e compagni, tanto da arrivare quasi a stravolgere la loro natura musicale, eliminando così i virtuosismi pianistici, ma strizzando però l’occhio alle degne rappresentanti dell’hard blues più granitico ed essenziale come Cream e The Jimi Hendrix Experience. Insomma, Out of Uranus è un tiro alla fune tra passato e presente, un braccio di ferro tra rock e blues, l’estremo, rabbioso vagito di un gruppo irripetibile.

La title- track – opener del disco –, sfodera già la potenza della band grazie ai taglienti riff di Clarke e al veemente e sublime drumming di Smith. Segue il pezzo più psichedelico: Soon There Will Be Everything, sorretto dal basso “cosmico” di McDonald e dalla suadente voce di Thorndycraft nelle strofe. Canzone elaborata che si rivela subito tra i momenti meno immediati ma più interessanti dell’intero lavoro. Degna di menzione anche Acid Bean, aggressivo e scoppiettante manifesto del disco, sorretta da un’irresistibile riff di Clarke, altrettanto impeccabile poi in fase solista. Bisogna attendere Where Nobody Ever Goes per ritrovare – in modo parziale e deformato – il carattere primigenio della band, con un trascinante scambio di convenevoli tra chitarra e armonica, soprattutto a metà brano, durante una modesta ma incisiva accelerazione delle parti ritmiche. L’album conserva il suo inossidabile carattere anche nella parte centrale, dove torna anche Lou Martin – in un solo brano: Call of the Politicians –, prima di un finale degno di nota, soprattutto con Lost Alone, brano (quasi) strumentale dove torna la sperimentazione psichedelica, mentre tocca a Son of Wet, il compito di mettere in risalto le doti di Smith. Un pezzo che sembra quasi una dichiarazione di guerra nei confronti di John Boham e alla sua celebre Moby Dick: ascoltare per credere!

A Milkman è affidata invece l’ultima cavalcata di questo impeccabile Out of Uranus, che incontrò tuttavia l’ennesimo fallimento commerciale, evento che contribuì allo scioglimento della band, rimasta poi inumata per oltre trent’anni, periodo durante il quale i musicisti intrapresero nuove avventure musicali. Nel 2003 avvenne miracolosamente l’insperata reunion, quando Clarke decise di riunire la formazione originale. L’evento fu celebrato con una nuova serie di tour inglesi, e addirittura con la registrazione di un nuovo disco: Zero Tolerance. Un semplice atto d’amore verso la musica, che lascia finalmente da parte le ambizioni commerciali del passato e non si cura di adattarsi a nessuna tendenza sonora.

Devoti.

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