Dopo la progressiva incursione della loro discografia in ambiti polistrumentali e troppo intellettuali a partire dal memorabile "Night Time", il 1990 segna il ritorno dei Killing Joke sulle scene discografiche internazionali con un doppio album dai toni provocatori, polemici e più incazzati che mai.
"Extremities, dirt and various repressed emotions" è un lavoro di intensità spaventosa, dotato di poteri evocativi che pochi, in seguito, hanno saputo riformulare e semmai hanno tentato di imitare. Una dozzina di brani che rileggono e aggiornano temi e stilemi del loro periodo d'oro, quello più sperimentale - se vogliamo - che all'inizio degli anni '80 marcò per sempre il territorio dell'ondata post-punk.
Il Dio Denaro, la cupidigia, la lotta civile, la solitudine, i ricordi di un'altra infanzia: questi i contenuti su cui Jaz Coleman e soci picchiano duro, trascinando l'ascoltatore in un vortice di sensazioni davvero estreme costruite su ritmi sincopati martellanti, chitarre martoriate, strofe urlate come gridi di battaglia. Non c'è spazio per la riflessione accorata, se non nell'episodio di "Solitude", mirabile ballad dal sapore postatomico che prelude allo strumentale arabeggiante "Kaliyuga" e all'esplosione finale di "Struggle". Gli orizzonti verso cui lo sguardo punta per quasi tutto l'album è quello tempestoso di oasi desertiche spazzate dal vento, di profili metropolitani insanguinati dalla legge del profitto, di cimiteri viventi popolati dagli zombie dell'era moderna.
Più che in album già ruvidi come "What's this for..." e "Revelations" che anni prima tentavano di dare forma al magma suburbano del punk, qui l'approccio della band britannica con il suono diventa ricerca di nuovi percorsi armonici e ritmici: i contrappunti di Martin Atkins (già batterista con i PIL) che stravolgono vaghi echi jazz per riversarli aggressivamente nel metal, le tastiere taglienti che sottendono ai riff di chitarra schizofrenici e compattissimi di Geordie Walker, i vocalizzi bestiali ai limiti dell'infarto di Coleman che sovrastano la sensazione di un vento radioattivo che pervade tutto il disco. La lezione del precedente "Outside the gate" - che fu una parentesi concettuale di stampo quasi art-rock - sembra aver stimolato lo Scherzo Che Uccide a rigettarsi nella mischia per ribadire l'idea di un mondo che dovrebbe riazzerarsi, portandosi in linea con la legge di natura; e non combattere più con l'arma della ragione e della dialettica, ma con i denti e le unghie.
Così, canzoni assolutamente travolgenti come "Intravenous", "North of the border", "Age of greed" afferrano l'ascoltatore alle viscere e portano in un crescendo vorticoso alla dichiarazione finale di "Struggle", implacabile cavalcata che parla di un credo di vita mai rinnegato dai Killing Joke: la lotta è dura, la lotta è lunga, la lotta è bella.
Capolavoro.
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