Erano le soglie del 1982, e per il visionario Jaz Coleman e il fido Geordie battevano alla porta incombenze che mettevano tutto il resto in secondo piano. Non c'era più tempo di preoccuparsi di emulare il successo underground degli esordi, o anche solo di chiudersi in cantina e ritrovare le giuste allucinazioni degne di "What This For… ". L'Apocalisse, e con essa la fine del mondo, erano vicine; parola di Jaz Coleman, personaggio di un altro tempo, uno sciamano contemporaneo costretto a vivere in un'epoca non sua, ma pronto a catalizzarne i sintomi del disfacimento ed a presagirne i possibili esiti, lucido nella sua apparente follia. Jaz sceglie l'Islanda, terra selvaggia e inospitale, ma proprio per questo primordiale e incontaminata, come rifugio da cui osservare la distruzione dell'umanità, e da cui porre le basi per un nuova civiltà purificata. Non sapremo mai fino a che punto i Nostri abbiano creduto a queste drastiche eventualità, ma sbilanciarsi a ridurre il tutto a pura allegoria, considerando questo ritiro messianico come espressione  di un semplice desiderio d'isolamento, significherebbe non aver mai letto e sentito nulla su Jaz Coleman e i Killing Joke. Una cosa è certa: ciò che viene quasi totalmente concepito in Islanda, sull'onda di quelle idee allucinate, è uno dei dischi più cupi e difficili di tutto il loro repertorio. Dal punto di vista lirico, le varie tematiche dipingono uno scenario univoco: le immagini familiari metropolitane cui siamo abituati vengono sbiadite e deformate. Sollevato il coperchio dell'omertà, ecco paesaggi non più rassicuranti con palazzi immensi posti su un piedistallo, mentre schiere di cloni avanzano in fila verso un ronzio, in cerca della terra promessa, la Terra del latte e del miele; in questa gara, chi attaccherà per primo avrà più chances di prevalere, ma forse non c'è più tempo, perché al sopra di tutto la condanna è già stata scritta. Gli ingredienti sonori sono praticamente gli stessi dei lavori precedenti: chitarre acide e distorte come solo Geordie sa fare, basso e batteria uniti in un'unica pulsione tribale, e voci ora filtrate, ora limpide ma sempre al limite dell'umano. Ciò che distingue "Revelations" però è la volontà ben percettibile di non voler scendere a compromessi con niente e nessuno. Musicalmente, evoca un blocco di granito i cui pezzi sono saldamente incastonati l'uno con l'altro e non intendono tanto facilmente essere scissi e distinti, se non dopo molti ascolti.

Si parte con "The Hum", splendido anthem manifesto del Killing Joke-pensiero: una marcia funebre futuristica, scandita a colpi di rasoio, che striscia senza meta e si dissolve in uno sciame di rumori industriali. Segue subito l'assalto di "Empire Song", compatta e serrata, anch'esso uno dei brani simbolo del primo periodo. "We Have Joy" rallenta di poco il ritmo, ma si dovrebbe aver già capito che in questo disco non c'è molto spazio per momenti di catarsi. Le pennate iniziali di "Chop Chop" sono illusorie, travolte immediatamente da un twist cyber-industriale senza esclusione di colpi. I ritmi impazziti proseguono con "The Pandys are coming", dove la sezione ritmica costruisce qualcosa di inimmaginabile fino ad allora, e le sciabolate di chitarra vi s'incastrano alla perfezione, mentre Jaz recita salmi attorniato da cori monocordi e cantilenanti: forse uno dei pezzi più folli di sempre, molto amato dallo zoccolo duro e di contro insostenibile per i non addetti. Non c'è tempo di tirare il fiato: "Chapter III" mette subito le cose in chiaro con una danza sfrenata che verrà poi ripresa, riveduta e corretta, nella meglio riuscita "Song And Dance". Un congegno di fabbrica manda poi all'attacco "Have A Nice Day", dall'impasto denso e senza sosta, coerente in tutto e per tutto con lo spirito dell'album. Sorprende invece "Land Of Milk And Honey", dove si arriva quasi all'hardcore, ma con un piglio talmente obliquo che i dubbi sull'autenticità della matrice vengono subito soffocati. Sorprende ancor di più, e apre a dibattiti di ogni sorta, l'improvvisa calma che piomba su "Good Samaritan": una quiete che non t'aspetti, dopo quasi mezzora di muri sonori e ritmi forsennati. Ora, in un'atmosfera rarefatta, scandita solo da deboli pennate di chitarra, possiamo vedere un Jaz allucinato che cammina scalzo tra le macerie di una città devastata, mormorando a bassa voce le miserie di una civiltà che non sa più a chi o a cosa credere. Seguitelo, è lui il Buon Samaritano; ascoltatelo, vi indicherà la strada da seguire. L'Apocalisse è dunque già venuta? Non ancora, ma la feccia del mondo che non ha degnato l'avvertimento, adesso si prepari: La chiusura è affidata a "Dregs", "feccia", appunto. Uno alla volta, gli strumenti prendono i posti di comando, poi si lanciano in un maelstrom malefico di distorsioni, tribalismi e rantoli avvelenati che è la degna summa e sigillo di tutto il lavoro.

Al termine di "Revelations" si è storditi, se non proprio sconvolti, come se davvero si avesse assistito all'Apocalisse, magari avvolti tra le spire di un uragano. Ma era davvero l'Apocalisse quella che Jaz temeva ed evocava tra questi solchi così inquietanti? Pur non privo di molteplici riferimenti all'occultismo, "Revelations" potrebbe arrestarsi prima della celebrazione apocalittica, e porsi invece come monito: che tutti si fermino in tempo e prendano coscienza, ancor prima che della distruzione materiale, di quella morale che imperversa nelle strade e nella vita di tutti i giorni. Forse, in questo modo, l'umanità eviterebbe la catastrofe e porrebbe le fondamenta per una nuova linea di condotta. Le "Rivelazioni" potrebbero proprio annunciare un altro avvento, inteso come nascita di qualcosa… Guardate il fiocco a lato della copertina: che stia a significare l'arrivo di una nuova civiltà? Beh, se così fosse, di sicuro innalzerebbe al cielo un vessillo con il nome "Killing Joke".

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