Sono i rami a muoversi, o è il vento? Nè i rami nè il vento, ciò che si muove è il tuo cuore, e la tua mente.
Nei primi anni dieci del duemila, delle produzioni Sud Coreane se ne parlava addirittura in classe. La cosa è importante, perché significava davvero essere alla portata di tutti: alla portata di chi ti chiedeva se avevi visto il gol di Sheva e subito dopo ti parlava di Old Boy (l'hai visto il il film cinese tipo Tarantino?), di chi si dilettava in divertentissimi giochi di parole coi titoli quando dettava l'odg (Matematica, Italiano, Storia, Tedesco... e ancora Matematica).
In tutto questo, un cicciottello fedele al cinema da circa diciotto anni di vita attraversava il suo periodo morboso nei confronti dell'horror psicologico orientale ed era reduce da Two Sisters, del buon Kim Ji-woon. Una volta intuito che avrebbe potuto dargli fiducia, smise di parlare in terza persona. E quindi mi buttai su Bittersweet Life, che fa il suo ingresso nel territorio revenge vestito di tutto punto, creando un impasto di ingredienti abbastanza presenti nel genere ma vestiti in smoking dall'inizio alla fine.
Il protagonista, Sun-woo, è l'uomo fidato di un potente Boss Sud-Coreano e gestisce l'elegante albergo in cui si svolge la prima, significativa, scena del film. Significativa in quanto mostra immediatamente lo sberluccichìo cui stiamo andando incontro, in pochi colpi ma ben assestati e incazzati: il metodo narrativo che verrà usato per raccontare il lungo percorso di violenza che attende Sun-woo; non una ditata sul cofano della macchina, non un oggetto fuori posto, non un colore buttato per caso, nessuna inquadratura lasciata a sè. Nella maggioranza degli episodi legati al filone sudcoreano introdotto qualche riga più su, la regia si distingue, oltre che per la qualità, per l'empatia con cui comunica allo spettatore. Ma se nella maggiorparte dei casi lavora su climi profondi, intimi, cupi, dettati anche da sceneggiature piuttosto complesse e con alto livello di contenuto, qui la maestria si manifesta in superficie, in maniera palese e dichiaratamente-scintillantemente estetica. E' il punto forte del film (che ormai ha già una decina d'anni, cioè dico DIECI???), punto forte assegnato praticamente all'unanimità, e di conseguenza un bersaglio centrato in pieno. Piccolo esempio di questo splendido mix è lo scambio di sguardi nel "duello" finale: note dal far west sul set tirato a lucido di un locale che omaggia "La Dolce Vita".
Detto questo, per quanto Bittersweet Life attinga dalle più note e blasonate tessiture del noir-revenge-eanchemezzopulp, e per quanto si spenda poco nella caratterizzazione dei personaggi preferendo il racconto visivo della furia cieca vendicativa, il personaggio di Sun-woo ha dei connotati più precisi, impersonando una specie di samurai invincibile e allo stesso tempo un uomo con anima e cuore acerbi e pieni di incertezze, incertezze che non appena si manifestano lo portano a fare la scelta sbagliata (sbagliata secondo il codice d'onore che il "sun-woo samurai" avrebbe scrupolosamente seguito). Ed a mio modo di vedere è tremendamente diverso dallo stereotipo della Bestia cattiva e spietata che in fondo nasconde il "cuore d'oro": in primo luogo perché in questo film il momento in cui rivela questo lato coincide con il momento in cui di fatto rende la sua vita un inferno, e in secondo luogo perché questa sua sfumatura umana ne sottolinea il lato fragile e insicuro di sè, a creare un dualismo raccontato con un ritmo che fa letteralmente volare il tempo sino all'incognita finale.
Non so se il problema dipendesse da quanto sia difficile creare un gioco di parole con Bittersweet Life, ma sta di fatto che purtroppo nessun mio compagno di classe lo nominava. Cazzi loro.
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