Nutro un segreto piacere nelle scoperte musicali al fotofinish, quei dischi usciti tipo a fine Novembre e che quindi non hanno il tempo di sedimentarsi per entrare nella personale classifica di fine anno. Ogni annata ne ho avuto uno, e il disco fotofinish del 2020 è l'ultimo disco del grande King Khan.
Per chi non lo sapesse, King Khan è il portabandiera anni '00 del garage soul più torrido e cazzuto sulla piazza. Domiciliato in quel di Berlino, ha solcato negli ultimi 20 anni il mare magnum del garage e dei suoi intepreti principali, grazie a una presenza scenica live da far sembrare sobrio il Renato Zero degli anni 70. Ma all'ascolto di questa sua ultima fatica, “Infinite Ones”, verrebbe da chiedersi se sia veramente lui l'autore del disco. Eh sì perchè quello che ci troviamo di fronte è uno sfrontato disco tributo al jazz meno ortodosso; mi riferisco a quello suonato dai vari Pharaoh Sanders, Archie Shepp, Ornette Coleman e in particolare le derive afrofuturistiche di Sun Ra e l'ethiojazz di Mulatu Astatke.
Sulla carta, visto il retroterra musicale del nostro, c'era il rischio del solito tributo “vorrei ma non posso”, e invece il buon Khan infila 11 brani uno più centrato dell'altro, che ci svelano un lato sconosciuto del nostro, qui accreditato come incredibile polistrumentista. Ovvio che tale perizia abbisogni di qualcuno “in the business” per essere portata a termine, e quindi Khan si è fatto accompagnare direttamente da musicisti del tempo, in particolare Terry Allen, sassofonista storico della Sun Ra Arkestra. La cosa bella, che rende il disco fruibile anche ai non avvezzi al genere, è l'incredibile capacità di comprimere in brani tra i 2 e i 5 minuti, pillole di jazz ora più spirituale, ora più canonico, ora orchestrale ora afrocentrico e risultare al contempo credibile e godibile.
In pratica il jazz suonato con l'approccio garage; sulla carta una merda, nella realtà uno dei migliori dischi del 2020.
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