Ieri ho messo in bocca un intero pacchetto di chewing gum e sono tornato bambino per qualche istante. Come se ci fosse un tempo ed uno spazio precisi per certi gesti. Infatti subito dopo mi sono sentito un monega. Non prima di aver fatto scoppiare qualche bolla trasgressiva.
Ero in immersione nello scantinato con pinne e bombola quand’ecco che spunta lui. OLD MAN ON THE BRIDGE. Son riemerso a velocità folle rischiando l’embolia. Siccome questo posto è anche un posto di stramberie ne tiro fuori una. Una lunga jam da cantina umida, un blues fuori dalla norma fatto per essere suonato alla sagra dei cetrioli sott’olio di Harrodsburg, Kentucky. College blues a tratti strascicato, a momenti brillante. Spigliato, libero da preconcetti, fuori dal tempo. Come un atto bambinesco.
Una registrazione da ungulati non meglio specificati, modesta attenzione nell’esecuzione, una serena trascuratezza negli arragiamenti. Il tutto su una discreta linfa creativa e tanta dimestichezza con l’autoironia. Del resto senza ironia nel Kentoky che fai? Ti spari letteralmente.
Quale acrobazia mentale abbia colto il bassista degli Slint per mettere su questa band non lo sapremo mai. Sappiamo ch’è creatura diversissima rispetto agli Slint. Hanno sette album all’attivo ma non m’interessa nulla al di fuori di questo debutto datato 1991.
Fare paragoni mi sembra azzardato, primo perché di blues non capisco niente, secondo perché sinceramente suonano unici. L’unica associazione è in alcuni passaggi coi Gang of Four per la chitarra tagliente ed i ritmi ancestrali. L’album lo riassumerei nella monumentale titletrack di quasi sette minuti. Scheletro del suono minimale: la batteria si propone ogni tanto in piccoli lanci, la chitarra crea dei mantra su note singole in sequenze veloci, il basso gigioneggia lo stesso giro per tutta la durata della canzone. Fosse un giro banale, macché sembra uscito dalle viscere dell’Africa tribale.
Poi arriva Ethan Buckler col canto svogliato ed attacca haibaheibahebehubahaba heuba heiba hobahuba haba x20. Un apocalittico nonsense, un crescendo blues-rock a cui è impossibile resistere senza ballare. Il tutto si spegne poi in altri quattro giri di haibaheibahebehubahaba, un messagio sconosciuto, un anziano solo sul ponte, chissà cosa starà pensando, come sarà stata la sua vita, chissà se se la fa sotto ma soprattutto se sa chi siano i King Kong.
EVERYBODY WANTS TO BE KING KONG
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