Dopo l’incrudimento della proposta musicale segnato dal precedente, fantastico quinto album “Dogman” (canto solista accentrato sulla sola emozionante ugola del bassista Doug Pinnick, suoni sempre a piombo, ballate al minimo sindacale, cori più asciutti e diretti con pochissimo retrogusto beatlesiano), i King’s X con questo sesto lavoro datato 1996 fanno un piccolo passo indietro, reinserendo ogni tanto in primo piano la voce certo non metallara del chitarrista Ty Tabor, indugiando nuovamente su quei magnifici arpeggioni larghi e profondi di chitarra che così tanto aiutano i rocchettari moderati a farsi conquistare dalla loro proposta, applicati come sono a melodicissime ballate mezze blues e mezze pop intrise di psichedelia (pure la copertina non scherza a quest’ultimo proposito!). Il suono del trio è beninteso anche qui molto heavy, potente risonante e coeso da morire, vera gioia ed ispirazione per chi sa apprezzare la resa tecnica oltre che artistica delle scelte timbriche, delle esecuzioni e delle registrazioni.

Per tutto l’album si va avanti in alternanza: ad ogni pezzo col riffone sparato in faccia e le corde ribassate di basso e chitarra che vibrano frequenze da assorbire più colla pancia che colle orecchie, segue un numero più rilassato e stordente, magari semiacustico, interpretato dal bassista senza bisogno di urlare oppure dalla voce ben più rotonda, quasi pop del chitarrista e in un’occasione pure da quella decisamente moscia del batterista Jerry Gaskill. E’ il caso della coppia iniziale costituita dalla pesante “The Train” e dalla circolare e timpanistica “What I’m Gonna Do”, come pure del cupo mantra monocorde “Sometime” a cui segue la dondolante e acida “A Box”, e ancora la breve scheggia di energia pura “Looking For Love” che si fa digerire meglio grazie alla successiva “Mississippi Moon”, questa una vera sciccheria un po’ in tutto: riff armonicissimo su tre corde, cori meravigliosi, assolo puntuto e ragionato di chitarra.

Il contrasto più radicale fra brani limitrofi sta in mezzo all’album, tra un mezzo rap asfissiante iper compresso, col basso distortissimo che non viene fuori dai 60 Hertz intitolato semplicemente “67” ed il pezzo a seguire decisamente meno claustrofobico, nonché quanto di meglio sappiano fare questi tre rocchettari di Houston: “Lies In The Sand” è una ballata blues di classe eccelsa, nella quale le toniche battute con parsimonia dal bassista e i rintocchi in arpeggio del chitarrista lasciano enorme spazio sonoro alla esimia batteria di Gaskill, strumento del quale si arriva a sentire tutto anche l’olio che sfrigola sulle meccaniche in movimento. Canta il chitarrista doppiando se stesso nelle armonie, al solito richiamando John Lennon in quanto a timbro di voce (sicuramente un musicista che, in età formativa, Tabor deve essersi mangiato a colazione pranzo e cena).

La meglio canzone arriva in posizione 10 e s’intitola “Fathers”: suonerebbe assai grunge (pure il testo non scherza) se non fosse che è cantata da Pinnick, ovvero un mulatto con la voce da nero, sprizzante animosità ad ogni vocalizzo. Sublime l’uso alternato fra singola e doppia chitarra ritmica per dare dinamicità al pezzo, togliendo e iniettando inaudita potenza ad ogni ripresa di strofa. Il solito basso termonucleare a frequenza di terremoto bada a fornire tonnellate di corpo al tutto e poi via di corsa verso un finale strumentale autenticamente psichedelico, che Jimi Hendrix avrebbe in quegli anni apprezzato se tanti tempo prima, quella notte a Londra, fosse svenuto a letto disteso di fianco e non a faccia in su.

Ultima segnalazione per la chiusura “Life Going By”, coi soliti ingredienti metal-pop vale a dire i cori intensi e sonori, batteria e basso che picchiano sugli accenti come magli, l’arpeggio di chitarra sapiente e risonante, la voce chiara ed educata di Tabor e come ciliegina sul dolce pure una delle sue migliori performance alla chitarra solista, bella ispirata sopra gli accordi delle strofe.

Boh, che dire di chiusura… basti l’affermazione che King’s X è il mio trio musicale preferito; nella mia personalissima classifica di gradimento e riconoscenza supera altri terzetti di clamoroso talento come Rush, ZZTop, l’Experience di Hendrix, Saigon Kick (chi?), i vecchi e rumorosissimi Grand Funk Railroad… Questo poi non è neanche da annoverare fra i loro album di assoluto vertice, pur tuttavia ce ne fossero di musiche altrettanto intelligenti, potenti e personali!

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