Nel mio mondo (musicale) perfetto, i primi quattro o cinque dischi dei King's X starebbero a disputarsi la palma del migliore di carriera in stimolanti dibattiti televisivi, stabilmente piazzati nelle classifiche dei migliori album rock di sempre, con il web e le riviste specializzate piene di loro recensioni e complimentose analisi. Così non è, i fiumi di parole sono rivolti a tutt'altre entità musicali, diverse delle quali a mio sentire neppur degne di una minima considerazione. Che altro posso dire come introduzione... percepisco King's X mi come entità meravigliosa, con i suoi alti e bassi ma senz'altro fra le più appaganti esperienze di appassionato ascoltatore di musica.

Questo è il secondo atto della (per ora) venticinquennale carriera del trio. L'anno è il 1989, il grunge e l'alternative metal sono ancora a livello underground, ma eccolo già qui il migliore suono di chitarra di sempre in questi settori (ma anche in assoluto, perché no): appartiene a Mr. Ty Tabor, un gigante di questo strumento come molti addetti ai lavori ben sanno: eccelle primariamente nel suono, risoluto e risonante, poi nell'attitudine ritmica precisa e dinamica, non secondariamente anche nell'arte  nell'arpeggio, profondo e lirico. Il suo fraseggio come solista è invero meno folgorante rispetto agli altri talenti appena elencati, pur mantenendosi a notevole livello.

Non è che Ty debba mandare avanti la baracca da solo... i due compari ai quali si accompagna sono anch'essi dei fuoriclasse a cominciare, tanto per cambiare, dal suono che sono in grado di ricavare dai loro strumenti: l'interazione fra  il timbro super basso di Doug Pinnick ed il creativo uso di tamburi e piatti (specie la cassa) di Jerry Gaskill è qualcosa di adeguatamente descrivibile solo a chi è ben addentro alle tecniche musicali, ma penso avvertibile da chiunque abbia l'orecchio attento al groove e all'efficacia ritmica nel rock. La ciliegiona sulla torta arriva poi grazie alla voce piena d'anima del mulatto Pinnick, protesa ad inzuppare di soul le trame metallar/beatlesiane/punkettare/progressive (!) allestite dal trio, sì da rendere il suono King's X unico, sfaccettato e multidimensionale.       

Considerata da una buona fetta di fans del gruppo la migliore fra le loro uscite discografiche, "Gretchen..." fece fare il salto di qualità al trio di Houston, dopo un esordio buonissimo ma che era riuscito solo a rompere il ghiaccio. Qui la frequenza di buoni numeri e di brillanti idee è senz'altro maggiore. Le cose più in vista sono per cominciare la rimbombante "Over My Head", ode alla musica giocata praticamente su di un solo accordo di tonica, più un altro, veramente straniante e "tossico", su cui va a cedere la chitarra alla fine di ogni riff.

Poi "Summerland", costruita su un impagabile, incalzante arpeggio che ha fatto scuola (o dovrebbe farlo, per chi non la conosce ancora ed ama la chitarra) e abbaiata da Pinnick con tutta l'anima di cui è capace (molta) prima del finale. In totale contrasto arriva il gioiellino "The Difference", puro Ty Tabor che va a suonare come un George Harrison più dotato e convinto: stessi rintocchi mistici della chitarra acustica (che suono magnifico!), voce beatlesiana posseduta da una qualche religione, cori di sesta e di nona made in Abbey Road.

Salto impossibile quello alla successiva "I'll Never Be The Same", Riff paradisiaco, cassa della batteria nello stomaco, Pinnick che barrisce come un ossesso e gli altri due che lo tormentano di cori e coretti, poi si viene fatti secchi da un finale in... assolo ritmico! Ty stacca una serie di bicordi e di riff intrecciati insieme, entusiasmanti e strappacore specie nelle loro sezioni cromatiche discendenti.

Un intro di organo liturgico suonato dal produttore Sam Taylor prelude ad altre prove di fuoco per il mulatto Pinnick su "Mission" e sulla seguente "Fall On Me", due episodi legati insieme dalla comune ricerca religiosa nei testi e dalle potenti interazioni ritmiche fra i tre strumenti. Quando poi Tabor libera i (brevi) assoli, si fa accompagnare da basso e batteria senza sovraincidere chitarra ritmica, alla ricerca di un'efficacia ancor maggiore del suo fraseggio.

Il capolavoro dell'album (a mio gusto attuale... perché qui è una bella lotta) si intitola "Pleiades"... pure la mia costellazione preferita! Canta il chitarrista, sopra uno dei suoi magistrali arpeggi che ogni tanto ama interrompere con sconquassi di bicordi. La sua voce definibile a'la John Lennon (metallaro) recita il testo e poi si fa da parte per una lunga jam session finale da favola, profonda e magica, nella quale non vi è una sola nota solista di uno strumento, bensì un'indiavolata interazione ritmica di tutti e tre, sulla quale giganteggia il batterista Gaskill.

Ultima segnalazione al volo per "Send A Message" nella quale la voce sublime di Pinnick provoca singulti di benefico disagio, intanto che chiede a chi ascolta di farsi vivo, con una animosità splendida. Fatevi vivi con i King's X, è musica intelligente, sentita, melodica e insieme trascinante, senz'altro rumorosa ma con arte.

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