Chi non muore si rivede e quest’aforisma calza a pennello, con un pizzico di cinismo, a proposito del quattordicesimo album in studio di questo trio di Houston, Texas, lontano a sua volta ben quattordici anni dal precedente lavoro datato 2008. Gli è che il batterista Jerry Gaskill, nel suddetto periodo, ha avuto da scampare a due infarti! La band si è fermata ad aspettarlo tornare in buona salute, chitarrista e bassista si sono dedicati a dischi solisti e side projects vari, ma eccoli qui di nuovo insieme a riprendere il discorso.
King’s X è un gruppo unico nel suo genere: un misto straniante di heavy metal, soul, grunge, Beatles, misticismo, religiosità, psichedelia, tiro furibondo e appagante contenuto melodico. Cantano tutti e tre, suonano da dio, coesi e decisi, i loro suoni spaccano, sempre… Ce n’è per tutti insomma: ci si può innamorare del canto heavy soul di Doug Pinnick così come del suo basso terremotante dalle molte corde; od anche dello stile di voce Lennoniano di Ty Tabor, abbinato alla sua chitarra che spazia fra riffoni grunge/alternative ad arpeggi celestiali oppure escavanti; o semmai della batteria precisa e intelligente di Gaskill.
Non della voce di quest’ultimo, chiara ma piuttosto ordinaria. Eppure essa è, insolitamente, in frequente primo piano in questo lavoro. Il batterista canta da solista mi pare quattro delle 12 canzoni presenti… Mai successo, e la cosa dev’essere considerata un piccolo minus: nel merito, i suoi compagni viaggiano a ben altro livello… Pinnick è una bestia soul di rinomata qualità (sia per gli addetti ai lavori, che lo chiamano a cantare qua e là come ospite in altre produzioni, che per il convinto anche se non troppo esteso manipolo di fans che la band possiede, me compreso). Tabor offre un’emissione vocale più chiara e psichedelica, a squisito contrasto rispetto a quella del longilineo, mancino, anziano (73) e conturbante bassista.
“Let It Rain” rappresenta un grandioso incipit con sciabolate di chitarra a squarciare un mormorio d’organo, poi la voce magnifica di Pinnick, la batteria autoritaria piena di spiattate, il ritornello profondissimo, l’assolo psichedelico a conquistarmi subito. “Flood Part.1”, che la segue, parte metallara ma è un vero e proprio shock sentir sopraggiungere le strofe squisitamente pop rock intercalate allo sconquasso del riff: ‘cezzionale, pura magia.
“Nothing But the Truth” gode dell’ennesimo saggio in arpeggio dell’ispirata chitarra di Tabor, scampanellante dietro la voce calda ed espressiva del suo bassista; uno standard ben collaudato nel repertorio King’s X, qui arricchito da un altro episodio di alto livello. Un po’ forzata però la ripresa e lunga coda strumentale, con un solo chitarristico animoso ma poco incisivo. In “Give It Up” spicca invece la ritmica perfetta, supremamente tight di Tabor: la resa è brutale, si potrebbe definirla un funky/hip hop/punk, dal frastuono sapientemente controllato.
In “All God’s Children” viene al proscenio la voce del batterista (sin qui era stato Pinnick a cantare tutti i lead): è un lento alternativamente pestato e rarefatto, più volte. La breve “Take the Time” è positiva, chiara, quasi celestiale, e la canta di nuovo Gaskill… strana scelta, forse perché l’ha composta lui. Mi ricorda il country rock californiano, per i cori turgidi e il risuonare leggermente psichedelico delle chitarre.
La voce solista di Ty Tabor arriva solo alla settima traccia “Festival”, un rock avvolgente e tutto in controtempo, buono ma non molto memorabile; ottimi però gli interventi di chitarra solista, dal suono grossissimo (Tabor ultimamente è passato alla Les Paul…). È seguita dalla caciarona, corale “Swipe Up”, abbastanza soprassedibile.
Riecco Gaskill al microfono per “Holidays”, di nuovo nella vena di un Roger McGuinn d’annata, sinceramente non il lato che mi fa strippare dei King’s X. Meglio la successiva “Watcher”, cantata da Tabor e condita qui e là dei suoi soliti arpeggi incantevoli. Gaskill imperversa anche in ”She Called Me Home”, stavolta un riempitivo e niente più. Forse lo è pure la finale “Every Everywhere” che galleggia per buona parte sui sublimi, cangianti cori a tre voci di vaga ispirazione beatlesiana, che il gruppo sa ammannire senza sforzo palese.
Giudizio ampiamente positivo per il ritorno di questi miei eroi purissimi del rock americano. L’album comincia a bomba coi primi tre pezzi fantastici, poi si ridimensiona un poco. Se avesse continuato sui livelli iniziali ne sarebbe uscito il loro lavoro migliore… invece no, ma comunque “Three Sides of One” si colloca degnamente all’interno della discografia dei nostri.
Il rock è in coma da diverso tempo, forse da qualche decennio, però ogni tanto arriva il nuovo lavoro di qualcuno dei supposti “dinosauri” (disco d’esordio dei King’s X: 1988) a far sussultare il suo glorioso corpaccione sfiancato e sfibrato. Tempi di sopravvivenza questi, e ben vengano opere così ad allietarne la sopportazione.
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