Di logica per un artista è impossibile rappresentare realisticamente uno stile di vita che gli è sconosciuto e in quest'occasione Kinji Fukasaku ci ha provato in maniera abbastanza deprecabile. The Geisha house in Italia è misconosciuto al contrario del regista che è passato alla ribalta con la trasposizione cinematografica di Battle Royale.

Ci vuole una bella presunzione nell'impostare un film del genere attraverso un taglio semi-documentaristico parlando di una professione appartenente a un mondo riservato e immerso nella segretezza che prima di M. Iwasaki in tempi recenti nessuno aveva descritto apertamente. Ma anche in un periodo antecedente all'uscita dell'autobiografia della Iwasaki il best-sellers di A. Golden appariva già vacillante in termini di attendibilità. Un po' l'autore scrisse delle imprecisioni volute per venire incontro alle esigenze del largo pubblico attratto in primo luogo dall'erotismo e dal sesso, ma vari errori credo proprio che fossero involontari, frutto di una cattiva documentazione che imperversava nello stesso Giappone come testimonia anche questo film.  

Nel 1999 c'era ancora una confusione mostruosa su cosa significasse essere una geisha e non potendo penetrare la vita all'interno delle okiya (le cosiddette geisha house) si ci ispirava ai bordelli d'altro borgo credendo che le cose non dovessero stare in maniera tanto differente.

Al contrario del film nelle okiyia gli uomini erano ammessi soltanto fino alla sala degli ospiti e non potevano andare e venire in orari poco opportuni affinché nessuno si facesse delle strane idee. L'onore e il buon nome delle case delle geisha erano tenute in altissima considerazione sia dalle persone che vi abitavano sia da chi le amministrava che doveva mantenerne intatto il prestigio e il buon nome, inoltre la riservatezza di queste abitazioni era tenuta in stretta considerazione: solo il sarto che doveva preparare le geisha era ammesso nelle sale interne della struttura per ragioni professionali.

Fukasaku invece dirige un film che volendo schierarsi contro i pregiudizi della società parte da pregiudizi madornali di cui non si rende nemmeno conto finendo per dipingere le geisha come fossero delle puttane più carismatiche della media. La stessa idea su cui è basato l'intero film, ovvero che le geisha concedano favori sessuali a uomini potenti in cambio di qualcosa è semplicemente ridicola: spesso una geisha guadagna più dei suoi clienti abituali e non ha alcuna ragione di concedersi sessualmente per denaro o roba del genere.

In più nel film manca tutta la componente artistica che è da sempre il pane quotidiano di queste donne; le si vede tutto il tempo parlare di sesso e trombate senza che venga lontanamente rappresentato e messo in risalto tutto il duro lavoro necessario per eccellere nelle varie discipline di questa difficile professione, quali musica, danza, calligrafia, dialettica, ecc... che vengono a stento vagamente accennate.

Come se non bastasse The Geisha House non è riuscito a convincermi nemmeno stilisticamente: un opera troppo gridata che tende a scimmiottare con vena nostalgica il vecchio cinema di Mizoguchi senza avvicinarsi minimamente a quei livelli.

Ma la mazzata finale com'era prevedibile è quella del mizuage (la stessa stronzata riportata anche nel best-seller di A. Golden) che viene inteso allo stesso modo di come stava a significare nei bordelli, ovvero la deflorazione cerimoniale di una prostituta (oiran). Nel mondo delle geisha la parola mizuage ha tutt'altro significato e sta ad indicare l'insieme dei guadagni di una geiko oppure la cerimonia di promozione di una maiko.

Insomma questa figura leggendaria che sembra destinata all'estinzione ancora oggi ha trovato pochissime consacrazioni sul grande schermo in grado di rendergli giustizia. Concludendo, The Geisha House è un film cinico e denigratorio che descrive in maniera molto grossolana e piena di errori il mondo delle geisha. Merita la sufficienza solo grazie a un copione scritto bene e agli splendidi costumi supportati da una buona recitazione.  

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