E anche Pib cadde nella trappola del bacio.

A tutt’oggi, le recensioni dei Kiss sono 28. Un mare; indubbiamente. Eppure vi è un piccolo forellino ove nessun fanatico si è ancora intrufolato: in quel forellino io v'infilo una altrimenti inutile monetina da un centesimo ed ecco, maraviglia!, parte la musichetta del triste carillon. Talmente triste che Peter Criss la spetascia con delle martellate che fan tremare i tamburi, già scossi di loro dal bassomitraglia del Demone: “Hello! Here I am, here we are”, dopotutto. Nell’anno novantesimo ottavo, più in forma del Grana Padano e più duri della sua scorza, riecco i Kiss: benvenuti al loro (nuovo) show.

Psycho Circus” è un hard rock spettacolo, energico e roboante, eppure assolutamente musicale nel suo savio ritornello; degno di nota, oltre alla bellissima voce dello Starchild, anche il malinconico assolo di Frehely. Davvero una gran canzone, poche balle. Per la voce di Simmons, segue una granitica “Within”, più lineare e meno appariscente, ma non vorrei sbatterci contro la testa, no davvero. Altro giro altra corsa, un gradito ritorno al sano rock d’annata; “I Pledge Allegiance To The State Of Rock & Roll” è un brano tirato, tipicamente kissiano, ove le trame dei due chitarristi si innestano sulla solida e sottovalutata ritmica dei due membri più scapestrati: rock d’annata e rock dannato. Viene poi “Into The Void”, canzone che The Green Manalishi mi avrà raccomandato di trattare bene almeno centomila volte, tante quanti gli anni citati nel lontano esordio. Non si preoccupi, il buon Green, trovo pur'io il brano spettacolo; scritto da Ace (che ci mette anche la voce), trattasi di sanissimo hard rock: le chitarre barriscono mentre Simmons masturba le corde del suo basso con la lingua. “We Are One”, in fondo, come in coro ci dicono i quattro nella prima ballata dell’album; ballata che tuttavia non rinuncia a stoccate elettriche di tanto in tanto. Melodia a fior di pelle, in ogni caso: a tratti sembra di vedere la famigliola della Barilla che si abbraccia mentre il fox terrier butta i fusilli in pentola. Com’essa termina, però, riparte il frullatore appoggiato da Criss sulla batteria, mentre lui si mette gli stivaletti di gomma per non subire le scosse provocate da “You Wanted The Best”. Un Ace in grande forma (tipicamente, l’asso di picche: gli altri son più piccoli) strapazza la sua chitarra mentre lo Stellato grattugia le corde in violenti conati ritmici; al microfono i quattro si alternano per un’allegra rimpatriata canora. Simpaticissimo ed originale (senza peraltro rinunciare alla grinta che permea questo bellissimo album) il brano seguente, “Raise Your Glasses”: primo minuto da musichetta finale di Super Mario Land e ritornello da telefilm adolescenziale. Ancora sugli scudi Frehely, ma che fosse un vero guitar-hero lo si sapeva. Anche il suo pusher, del resto, lo sa bene…

Ricorda molto la dolcissima “Beth” (dal lontano “Destroyer”) la lacrimevole “I Finally Found My Way”, scritta ed interpretata da Peter Criss e farcita di sviolinate con maestria; molto sofferta la voce, neanche il pianoforte battesse i martelletti sulle corde vocali. Ma si avvicina la chiusura del Circo Psichico, signori: affrettatevi che qui tra un po’ si chiudono baracca e burattini. Sto solo sognando?, si chiede Stanley in “Dreamin’” con il consueto cantato rugginoso; brano più convenzionale, non nasconde tuttavia un discreto fascino, retto ancora dalle due chitarre. Senza che – per la gioia di Pollicino - neppure un briciolo di tensione venga perso, la bacchetta magica di Campanellino sberluccica per qualche secondo; poi il Gatto gliela frega di mano e si inventa un drumming molto particolare ed efficace per l’ultimo brano, ancora una volta bellissimo. Del resto, si sa: il titolo iperbolico è una garanzia per il quartetto di New York, che questa volta parte per un breve “Journey Of 1,000 Years” (leggasi mille, nonostante l'odiosa virgola decimal-anglosassone…). Molto cadenzato e ben cantato dal Demone che per una volta tiene a freno la lingua, il brano divampa in una coda strumentale ove i quattro si sfogano ancora una volta prima che il circo chiuda, ritornando nei suoi carri colmi di tristezza. Sulla desolata erba pressata, Campanellino raccoglie la sua bacchetta, ancora rovente, e sparendo nell’aria ormai silenziosa vola verso lontane mete anche lei, lasciando il prato rinsecchito alle tubate dei magri piccioni.

“Psycho Circus”, dunque: è un album molto duro, soprattutto se relazionato alla produzione precedente dei Kiss. Un ottimo album, mi sento di aggiungere: lo si capisce già a partire dalla gioiosa copertina ad immagini semoventi (non so spiegarmi meglio… c’avete presente le card che davano con le Kinder Brioss?); a mio parere è evidente la contrapposizione di questa superficiale allegria con la tristezza ispirata dal faccione da Pierrot deforme sbattutovi in primo piano. Siamo di fronte, ancora una volta, ad una band certo non epocale (o forse, a suo modo, sì?), ma valida più di quanto si creda e che peraltro ha saputo dimostrare di avere i mezzi per sperimentare nuovi percorsi, non necessariamente impervi come fu per il riuscito “Music From The Elder”, ma semplicemente mai banali. Perché costoro tutto saranno, ma banali mai. Vuoi anche solo per il trucco, che vanta più tentativi di imitazione della Settimana Enigmistica.

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