Poiché avevo una brutta carie, stamattina sono stato a farmi visitare da un odontoiatra presso un famoso studio dentistico di Bologna. Chi ha esperienze di vita vissuta in materia, sa bene quanto questa sia una di quelle da dimenticare e allo stesso tempo indimenticabile. E non mi riferisco tanto all’onorario e alle tariffe applicate dai nostri amici dentisti. Non solo.

Questo grosso e grasso luminare della scienza odontoiatrica internazionale con barba e pizzetto, che nelle sue fattezze un po’ mi ricordava il chitarrista degli Slayer, ma più ciccione, alla fine di una breve analisi della mia dentatura e in particolare del mio secondo premolare superiore, quello “malato” insomma, ha ritenuto non vi fosse alcuna alternativa a procedere a quella che in gergo clinico viene definita una “otturazione in composito”.

Mi piacerebbe spiegarvi nel dettaglio in cosa consiste questo intervento, ma non ho le competenze tecniche adeguate e comunque, a causa della paura e dell’anestesia, non è che ci ho capito granché (comunque il dottore odontoiatra Manuele Chiese ve le spiega qui). Fatto sta che dopo, e dopo avere abbandonato lo studio dentistico e ascoltato le solite raccomandazione del tipo “usa un dentifricio al fluoro, mi raccomando” (come se prima lo usassi in cemento armato…), il dente mi faceva un male cane, mi girava la testa e non riuscivo nemmeno a guidare la mia automobile.

Così, percorso qualche isolato, ho pensato di fermarmi a un bar e berci su qualche cosa di forte per non sentire troppo il dolore. Sono entrato nel bar, ho salutato il barista e fatto l’occhiolino alla cassiera, ho bevuto due caffè, un ammazzacaffè, ovverosia un sambuca Molinari gradazione alcolica 42% e ho sciacquato il tutto con due whisky buttati già tutti d’un sorso e un’acqua tonica. Quando sono uscito dal bar ho vomitato sugli stivali nuovi di un travestito ungherese che mi ha proposto mezz’ora di sesso selvaggio per la modica cifra di ottanta euro, ma, dato che gli ho dovuto pure ripagare gli stivali, mi giravano le palle e ho gentilmente rifiutato.

Comunque vomitare è stato un po’ come rinascere, così, anche se mi doleva ancora il dente, prima di ritornare a casa, ho pensato di fare un salto al negozio di dischi all’angolo. Il tipo che lo gestisce mi ha detto, “Ciao amico, ti vedo pallido.” Io, “Lascia stare Bob, ho avuto una brutta giornata. Ti spiace se do un’occhiata in giro?” “Fa’ quello che ti pare, chi se ne frega. Io mi sparo – nel frattempo si era fatta ora di pranzo - un bel paninozzo con le salsicce.”

Come sempre, non avevo una idea precisa circa cosa comprare e, canticchiando “dormi sepolto in un negozio di dischi, non è la cassa, non è il giradischi…”, mi sono messo a spulciare in un cassettone di vecchia roba etichettata genericamente come “New Wave”.

Nel mezzo della mia ricerca mi sono ritrovato tra le mani questo dischetto dei Kitchens of Distinction dalla copertina caleidoscopica e allucinata e nel cui mezzo spicca il mezzo busto in bianco e nero di un tipo che sembra Sean Connery in “Agente 007 – Licenza di uccidere”. Mi pareva una copertina abbastanza ridicola, così mi sono voltato verso Bob e gli ho detto, “Senti, ma chi è questa faccia di cazzo?”

Ma evidentemente, a causa del mal di denti, mi devo essere espresso male. Bob mi ha risposto distrattamente, “Ottima scelta. Quick as Rainbows dei Kitchens of Distinction. E’ un singolo del 1990. Sono quattro anni e mezzo che mi è arrivato e non riesco a venderlo. Si vede che sei un intenditore: te lo faccio a quarantacinque euro.”

Naturalmente ho provato a spiegargli che non avevo alcuna intenzione di acquistare quel disco, “No, volevo solo chiederti chi è questo…”, ma me lo ha strappato di mano e lo ha imbustato, ha battuto lo scontrino al registratore di cassa e mi ha detto: “Va bene: quarantadue euro. Solo perché sei tu. Ora non rompere le palle e lasciami finire il panino.”

Mi pareva inutile protestare. Così ho pagato i quarantadue euro e sono tornato alla macchina. Ma in tasca mi erano rimasti pochi spiccioli e nel serbatoio ancora meno carburante. Ho telefonato mia sorella pregandola di raggiungermi, di venirmi a prendere che, cazzo!, ero rimasto senza benzina, ma era a un festival di musica reggae e non sarebbe tornata prima di quattro giorni. Mi sono incamminato a piedi verso casa e sono rientrato solo a sera. Sotto casa c’era un distributore automatico di sigarette, ho preso un pacchetto di Merit gialle, ho fatto gli scalini di corsa.

Una volta a casa mi sono acces… Va bene, in un primo momento ho pensato di farmi una sega. Poi ho cambiato idea: mi sentivo troppo stanco, quel fottuto premolare continuava a farmi girare la testa; soprattutto dovevo ancora capire chi cazzo fosse quel tipo sulla copertina di Quick as Rainbows. Così, dicevo, mi sono acceso una sigaretta, ho messo l’Ep a girare sul mio giradischi e mi sono messo al computer a ricercare sul web qualche informazione qua e là su chi fosse questo tipo.

E’ andata a finire che non ho risolto un cazzo, ma ho letto un bel po’ di cazzate sui Kitchens of Distinction. Quelle mezze seghe di Onda Rock sparano le solite storie trite e ritrite: “dream-pop, ritmi quasi ballabili e un afflato – che cazzo è un afflato? – esistenziale post-Smiths”, in pratica definizioni di default già sentite per altri duecentomila gruppi; quello stronzo di Scaruffi, al contrario e al solito, li definisce sognanti e al contempo soprattutto dimenticabili.

Su una cosa sono d’accordo con entrambi: le melodie e liriche dei Kitchcens of Distinction sono sognanti – tanto è vero che poco dopo ho chiuso gli occhi e mi sono fatto quella sega di cui vi dicevo. Ma non vedo nelle loro sonorità alcun tratto in comune con gli Smiths, né questo mi appare in alcun modo ballabile e o banale e dimenticabile. Soprattutto non ho sentito nessun afflato, qualunque cosa sia.

Direi piuttosto che questo Ep, come del resto tutta la produzione dei Kitchens of Distinction a partire dall’eccellente Love Is Hell, Lp del 1989 edito dalla mitica etichetta One Little Indian e uno dei dischi fondamentali della storia della musica per chi scrive, non è che la conferma delle grandi qualità e della unicità del sound di questa band che, piuttosto che richiamare gli Smiths, ricorda gli Echo & the Bunnymen, i The Chameleons, i The Sound di Adrian Borland e, udite udite, i Joy Division. Senza dimenticare che qualche schitarrata volge più di qualche occhio, e sì che ne dovevano avere molti, alla “gioventù sonica” d’oltreoceano e anticipa quelle che saranno poi seguite di lì a poco in terra britannica.

Sono solo quattro tracce, tra cui spicca inevitabile la ipnotica “Quick as Rainbows” e cavallo di battaglia del long play "Strange Free World", più altre tre tracce eseguite dal vivo: “Mainly Mornings” e “Shiver” (da Love Is Hell) e “In a Cave”. Sono solo quattro tracce, ma non riesco a farlo smettere di girare sul mio giradisch.

Il dente mi fa ancora male e ho avuto una giornata di merda e non ho capito chi sia il bellimbusto sulla copertina di Quick as Rainbows, ma tutto sommato mi considero fortunato per avere riscoperto questa band britannica che, oltre alle belle melodie, amava distinguersi in cucina come sul palco. Fanculo. Mi sa che la prossima settimana torno dal dentista: prevenire è meglio che curare.

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