Nel 1989, ormai affrancatosi dall'amico/nemico Herzog e dal quel cinema italiano di genere che spesso gli aveva ritagliato ruoli da comprimario, Kinski si avventura ambiziosamente nella regia, oltre che nell'interpretazione, di un film sul grande musicista Niccolò Paganini. La vita sregolata ed ossessiva del musicista genovese ed il suo perverso e morboso rapporto con il violino e con le donne, sono la fonte primaria di ispirazione per il regista, che non sviluppa una pellicola biografica convenzionale, ma tenta soprattutto di dare sfogo al proprio estro interpretativo, ponendosi sempre al centro dell'obiettivo della macchina da presa. Le inquadrature sono spesso mosse e sovente si ricorre al rallentatore, così come alle voci fuori campo e a tutti quegli escamotages estranianti che alla lunga, a dire il vero, disturbano soltanto. La trama è un filo molto sottile, quasi inesistente, che lega ricordi, esibizioni, avventure erotiche (rappresentate in scene piuttosto esplicite) ammantate di violenza e di passionalità malsana. Kinski prende la macchina da presa e la punta su di sè per tutto il film e, quando non lo fa, i personaggi parlano di lui (lui "Paganini" o lui "Kinski"?) solitamente con accezioni negative.
La prima scena mostra un concerto al Tatro Regio di Parma e già si intuisce qual è l'attitudine del film intero: mentre il nostro Kinski/Paganini si esibisce sul palco, mostrando un aspetto spaventoso, horrorifico e animalesco, una donna commenta in preda ad un'eccitazione incontrollabile orgasmica, mentre partono carellate di immagini simboliche o sequenze pseudo biografiche. Il film procede unguale a se stesso per un'ora e venti, intervallando deliri erotici, deliri musicali e deliri visivi del regista. Unica parentesi più umana è il rapporto dolcissimo tra il Violinista e il figlioletto. Per il resto l'oscura figura di Paganini, pallida e luciferina, irretisce, non si sa come (anzi, si sa, grazie alla sua musica) donzelle di ogni età e di ogni estrazione che si consegnano a lui per vivere rapposti carnali violenti al limite dello stupro consenziente. Kinski recita in italiano senza l'ausilio del doppiatore (d'altra parte i dialoghi sono davero pochi), ma l'accento teutonico lo tradisce, nonostante l'interprezione sia più che altro fisica e viscerale. Nel cast anche l'allora moglie Deborah Caprioglio.
Tra viaggi in carrozza, cavalli al galoppo, violini impazziti, interni decadenti, stanzette lugubri e sporchi amplessi, il film finisce senza che si riesca a capirne bene il senso. Non è chiaro se il regista volesse creare un'opera d'avanguardia, oppure volesse ripetere in qualche modo il cinema visionario di Herzog, condito, però dalla passione debortante di un Kinski finalmente senza freni. L'impressione che si ha guardando "Paganini" è che il cavallo (Kinski) si sia finalmente liberato dalle briglie e che finora lo avevano obbligato ad un "cinema di altri" e che eserciti finalmente la propria libertà artistica con un urlo liberatorio, come dire "finalmente faccio quello che voglio io, solo io". Ne risulta un film eccessivo, una biografia interiore del regista, che non si cura troppo del pubblico e della critica, che infatti lo stronca senza mezzi termini. In quest'ottica vale la pena vederlo, per scendere nel delirio del grottesco, dello sconclusionato e dell'"orrido", a patto che si ami Kinski con i suoi eccessi e le sue follie.
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