Film vincitore del premio per la miglior regia al Bergamo Film Meeting 2025
A volte scocca come una scintilla, magari sono io che in quel momento sono più predisposto, però mi succede. Ultimamente molto di rado, devo ammettere, ma ieri sera al Circolo del Cinema di Verona, dove ho visto in anteprima questo bel film, è successo.
Mi sono trovato subito a mio agio durante la visione di questo "Winter in Sockcho". Merito soprattutto di una regia straordinaria, che ha saputo creare un’atmosfera particolare, con una narrazione composta principalmente da piccoli gesti quotidiani, intimità, profili delineati e disegnati in animazioni improvvise, partite a scacchi dove la bravissima protagonista sfida a turno la madre e lo scrittore fumettista, muovendo pezzi fatti di sentimenti, curiosità, rivelazioni, scoperte, emozioni. Ma l’ambientazione conta altrettanto, questa città al confine tra le due Coree permette di allargare il raggio d’azione, di far entrare anche la Storia con la esse maiuscola nello sviluppo della narrazione, seppur in brevi cenni e sequenze, ma sufficienti a fornire un respiro più ampio al racconto.
Parlavo di profili e nel vero senso della parola, linee di corpi accarezzati con dolcezza, linee tracciate da pennelli veri e immaginati in bellissime sequenze animate, che arricchiscono di poesia i momenti più intensi. Ma anche gli stupendi paesaggi di montagne rocciose presentano i loro profili immutati nel tempo che evocano altri corpi, altre storie o leggende locali, chissà poi se reali o inventate al momento.
I personaggi, costruiti magistralmente, grazie a pochi accenni, a qualche ricordo, a brevi informazioni raccolte su internet. Ma il loro carattere viene delineato principalmente attraverso le immagini (stiamo parlando di grande cinema mica per caso), attraverso il lavoro, i gesti, il rapporto così intimo tra la protagonista e la madre, il contatto, i ricordi, i pudori nel raccontare la verità nascosta.
L’istinto quasi animalesco dell’enigmatico fumettista francese nell’annusare, assaggiare gli inchiostri, i pennelli, la carta, i suoi modi bruschi e diretti ci mostrano una personalità forte, ma con delle crepe (il pugno sul tavolo che fa schizzare l’inchiostro) che solo la scavo, lo studio di nuovi luoghi e persone riescono a rinsaldare temporaneamente in attesa di un nuovo viaggio, di una nuova ispirazione. Lui in fondo è un ladro, come forse lo sono tutti gli scrittori, ruba dalla realtà che lo circonda, prende le informazioni che gli servono, sfrutta (ma senza cattiveria, è una sua necessità esistenziale) le persone che gli possono tornare utili, succhia la loro essenza, ma limitandosi al necessario, non va oltre, è onesto da quel punto di vista. Certo ritorna poco o niente di quello che ha ricevuto, in fondo senza mai chiedere esplicitamente. Un disegno di lei abbandonato sul comodino, un modo molto asciutto di dire grazie, in linea con il personaggio.
Lei, invece, è dolcissima, una ragazza cresciuta solo con la madre, il padre francese (il collegamento con il fumettista è fin troppo evidente) mai conosciuto, si arrangia facendo la cuoca tuttofare nella piccola guest house, minacciata economicamente dalla costruzione di tre grandi alberghi. E’ colta, ha studiato letteratura francese a Seul, vive nella città di Sokcho più che altro per stare vicino alla madre, altra personalità abbastanza forte, che si occupa di un banco al mercato del pesce. Ha una relazione con un ragazzo carino e simpatico, tanto bello esteticamente quanto superficiale e vuoto interiormente. L’arrivo dell’ospite straniero, della stessa nazionalità del padre mai conosciuto e la curiosità naturale per una persona di livello intellettuale superiore rispetto a chi la circonda, non potevano che creare un turbamento nella sua vita ed essere alla fine occasione di crescita emotiva ed esistenziale.
La regia gioca con tutto questo materiale in maniera eccezionale, con sequenze e inquadrature sempre pensate attentamente, sia quando i personaggi sono da soli (meravigliosa la scena di lei in bagno col pennello e lo specchio appannato), sia quando interagiscono con altri (spesso in situazioni a due, le partite di scacchi a cui accennavo prima) e, come se non bastasse, inserendo scene animate che partono sempre col tracciamento di linee (i profili, quanto sono importanti ho detto) e vanno a sublimare le situazioni reali (vedi la bellissima ultima scena d’amore tra lei e il suo ragazzo).
Cosa resta alla fine di una visione così piena, delicata e densa allo stesso tempo? La sensazione di aver vissuto accanto a questi personaggi, di averne condiviso le sensazioni, i sapori del cibo e della sua preparazione (altro contributo di contorno, ma molto curato e non di poco conto all’interno del film), gli odori, il paesaggio invernale, così bianco, freddo e algido, in contrasto col calore proveniente dalle persone che per un paio d’ore scarse hanno riscaldato il mio vecchio cuore e immagino anche quello di tante altre persone in sala.
Grazie Koya Kamura, regista di questo piccolo grande gioiello cinematografico, per quello che ci hai saputo regalare.
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