Un tipo di nome Leibniz ha detto che la musica è contare senza rendersene conto. La matematica nei Kraftwerk conta, anche la geometria, anche la tecnologia.
Anche l’anima nei Kraftwerk conta.
E’ come se avessero intrappolato un uomo in una macchina; o forse, è una macchina inghiottita; sembra ticchettare come un orologio (questo ricorda il coccodrillo e Capitan Uncino). La copertina è rossa, nera e bianca; in quattro indossano camicia, cravatta ed una maschera di cera; i caratteri delle scritte sono stimolanti, c’è del Bauhaus. Ecco, inizia a girare. Si odono dei goffi singhiozzi molleggianti tra attimi di silenzio, poi scariche irresistibili di percussioni; un riff travolgente! ”We are the robots” , bastava la voce. (vorrei iniziare a muovermi)
Soffia un’aria melensa, si incrociano e sovrappongono armonie antiche ed un trombone elettrostatico. Tum–Tah (per n-volte). Un synth percorre strade zuccherate e mi esplode il cuore. Ah già, e un laboratorio spaziale. Usciamo tra le strade della “Metropolis” dove pare ci sia la nebbia tra i grattacieli, perché i Kraftwerk sono una impresa edile. (ovvio!). “The model” è in verità un uomo grasso che barcolla sul monociclo canticchiando. Dice qualcosa in una lingua tra l’inglese e il tedesco, sarebbe bello organizzare un gruppo con quattro tastiere. Un piano acido e mutilo come corrente alternata, percorre fili (Tum–Tah, in continuazione); e si trascina avanti. Sapete come sono fatte le luci al neon. Suona intanto un carillon sempre più dilatato.
Ormai non penso ad altro. Sono un uomo–macchina. (e predomina il viola).
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