Mark Kramer la sa lunga.
La sua onnipresenza nella scena dei più fertili bassifondi rock, quelli dove nascono le vere novità, da fine Anni Settanta a oggi, sfiora il santo dono dell’ubiquità…
Per dire alcuni “eventi” di cui è stato, nei più disparati modi, partecipe, vi dico che intorno al ‘79 lo potevate sentire suonare “country” in qualche localetto sfasciato di Nuova York insieme a nientepopodimeno che John Zorn (geniaccio “jazz” ben rappresentato su deBaser..), che fu per qualche tempo il bassista degli enormi Butthole Surfers nei loro anni più fecondi, che, soprattutto, è il demiurgo di quell’Istituzione indie-pendente che è la Shimmy Disc, quello studio di registrazione che, per dirne pochi, nasconde i segreti di gente come i Galaxie 500, gli Half Japanese, il folle Daniel Johnston, i Palace Brothers di Will Oldham, “Naked City”, capolavoro assoluto del già nominato Zorn…
Ma se fin qui si possono apprezzare le doti del Kramer-produttore, è con i Bongwater, sorta di nuovi fantastici e psichedelici Mothers Of Invention di zappiana memoria, che salta fuori lo spirito “represso” del Kramer-artista… ”The Guilt Trip”, sua prima (e di gran lunga più interessante) opera solista del 1993, è il frutto di un vecchio ingordo hippie fuori tempo massimo che, chissà, forse nelle pause, nelle notti, in cui non era costretto a controllare e rifinire il lavoro altrui, si è dedicato con pochi intimi alla sua passione più sincera: la vecchia e cara psichedelia…
E ciò che il suo ego smisurato e la sua sconfinata esperienza da “bestia” da studio di registrazione hanno finalmente concepito è questo imponente, talvolta debordante, triplo lp da 36 canzoni… Si tratta perlopiù di pezzi strumentali sui tre minuti che sviluppano brevi idee, o frammenti di idee, spesso semplici riff, presi, rubati o rimescolati in un arte, quasi “pop” (in senso Wahroliano), della citazione e dell’auto-citazione… Si parte dall’intro con tre note d’elettrica “space” esasperate in un intenso crescendo (la sua “tecnica” preferita), per poi passare per un po’ di tutto, ballate barrettiane con coda alla Red Crayola, un’elegia funebre dai sapori Flaming-lipsiani, paradisiaci strumentali con liquide chitarre wah wah e organi svolazzanti, riff hard rock su base tribale stile Popol Vuh, giochetti da studio gusto-Residents, power pop alla Who a mini jam blues-rock...
L’avete capito, la mole e la varietà sono il pregio e il difetto dell’album e la “troppa” esperienza, il bene e il male di Kramer… Comunque resta un’opera importante, troppo poco considerata e da scoprire tutta…
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