Partiamo subito malissimo: il Kubb è un gioco svedese di origine vichinga, a metà fra le bocce e il bowling. Ed io odio entrambi. Mi sembra comunque puerile giudicare male un album solo per una scelta “sbagliata” del nome del gruppo, per questo lo infilo nello stereo e lo ascolto per un giorno intero. Voi non fatelo.
Il pezzo d’apertura, Remain, è davvero brutto e scontato, tanto che mi ritrovo con l’indice della mano destra sul tasto STOP. Ma essendo stupido e cocciuto vado avanti. Segue I dont mind, tema da terza elementare musicato, ed è qui che il mio rapporto con i Kubb inizia pesantemente ad incrinarsi. Continuo ad ascoltare allibito e mi imbatto in Grow, IL capolavoro finale del medley di bassa lega: un cocktail sapientemente miscelato fra il Gospel, il Doo-Wop anni '50, John Lennon alla tredicesima canna e i Take That. All'ottava traccia finalmente la consacrazione finale: Chemical è la goccia che fa traboccare il vaso e l'album collassa su se stesso. Dopo avercela menata sull'amore (e io adoro le canzoni d'amore, pensate un po') su ogni singolo pezzo, un bel testo sulle droghe arrangiato in stile "Volevamo essere i Pink Floyd" fa venire voglia di eroina subito, invece di dissuadere le masse dal consumo di stupefacenti. Come se non bastasse a 4'30'' dall'inizio del brano (che ne dura ben 6) entra un giro di pianoforte quasi interessante, demolito istantaneamente dall'ennesimo coro gospel uscito da Chuck e Nora.
Dopo quindi essermi spaccato le casse (per usare un termine delicato) per tutto l'album, al penultimo pezzo i Kubb tirano fuori gli artigli con Bitch, ma si rompono le unghie. La prima strofa fa presagire l'arrivo di un inferno di distorsione, di quelli che al confronto i Gorgoroth suonano con le chitarre pulite... e invece niente. Non c'è carica neanche quando urlano "puttana" per tutto il ritornello. Deprimente. Per chi mastica l'inglese abbiamo metafore e testi al limite del ridicolo, per chi non mastica l'inglese ma mastica buona musica, abbiamo melodie e arrangiamenti al limite dell'imbarazzante. Diciamolo pure: non esiste una singola idea in tutto l'album. Sarà che sono esigente, ma arrivare al 2007 e trovarsi di fronte rime come soul/control, bad/head, name/game, you/do, in 4/4 con un bel giro di DO sotto, ha il suo bell'effetto. Lassativo intendo. Per essere precisi l'album è del 2006, ma i Kubb non sarebbero dei pionieri neanche se ci trovassimo nel 1965. Questa perla di banalità ben registrata (il suono mi piace molto) è insomma un prodotto di quelli che dici "ma come è successo?" anche se va precisato che la voce cantante (Harry Collier) non è affatto male, mentre il resto è una vera e propria tragedia musicale, un incidente mortale di accordi, un patatrac di scale banali maggiori.
Ma non tutto il male viene per nuocere: cercando i testi on line, mi si è aperto un banner sui voli low-cost per Londra, ed è questa la vera cosa grandiosa di quest'album: me lo ricorderò quando sarò a Piccadilly Circus con i Radiohead nelle orecchie ad un volume da arresto.La prossima volta giuro che recensisco un album, questo è semplicemente un errore.
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