Per tutti gli anni che ho passato qui, non ho avuto mai l’ardire, e probabilmente è stato un bene, di provare a scrivere una recensione su qualcosa che rientrasse in quella vasta categoria di opere dell’ingegno umano chiamata letteratura.
E il motivo è semplice: non mi sento preparato, non sono un lettore con i "galloni", mi mancano quasi del tutto, tranne poche eccezioni, i classici.
O, meglio, spesso preferisco conoscerli per via indiretta, e se quella via indiretta non la trovo, il classico rimane non letto.
Questo, per fortuna, non mi è capitato con Kurt Vonnegut, la via indiretta lo ho trovata, il suo classico "Mattatoio n.5" alla fine lo ho letto, passando prima da "La colazione dei campioni" però.
State a sentire come è andata.
Tempo fa, in un museo iper-mercato della mia città, mi feci incuriosire da un libro esposto su uno scaffale, “Lo strano mondo di Alex Woods”, autore un certo Gavin Extence, un giovane autore inglese.
Libro carino, pieno di trovate originali, dissertazioni scientifico/filosofiche/esistenzialiste come piace a me, ma soprattutto con al suo interno un personaggio molto particolare con una passione sfrenata per le opere dell’autore di Mattatoio n.5.
Una in particolare, “La colazione dei campioni”.
E allora, dato che voglio parlare de "La colazione dei campioni" ma non so se ne sono capace, comincio a farne parlare Extence, decidete voi se questa può essere letta come una recensione sul libro di Vonnegut o, forse meglio, o almeno in parte, su quello dell’autore inglese.
“Avevo già letto due terzi de La colazione dei campioni, un romanzo che parte da un festival di letteratura in Ohio e racconta di un vecchio e spiantato scrittore di fantascienza di nome Kilgore Trout, e di un ricco rivenditore d’auto chiamato Dwayne Hoover che si convince che ogni altro individuo sulla faccia della terra sia un robot, perfettamente funzionante ma privo di sentimenti, di immaginazione, di libero arbitrio e di tutte le altre cose che compongono l’anima”.
“A mettergli in testa questa idea è la lettura di uno dei libri di Trout. Poi Dwayne Hoover dà completamente fuori di matto".
"Come in molti romanzi di Vonnegut la trama era assurda e irrilevante. Avresti potuto strappare tutte le pagine e rimetterle insieme a caso senza compromettere la tua esperienza di lettura. Il libro avrebbe funzionato comunque, perché ogni pagina, se non ogni paragrafo, era un'unità autonoma che brillava di luce propria."
"L'aspetto che più mi piaceva della Colazione dei campioni era questo: a differenza della maggior parte dei libri non dava per scontato che il lettore sapesse proprio tutto degli esseri umani, delle loro abitudini e del pianeta in cui abitavano. Sembrava che l'autore si rivolgesse a un alieno di una galassia lontana, perciò descriveva minuziosamente ogni cosa, dai piselli ai castori, talvolta indugiando sui dettagli più eccentrici, talvolta aiutandosi con illustrazioni e diagrammi. Spiegava tutte le cose che gli altri reputavano troppo scontate per essere spiegate. E più leggevo, più mi rendevo conto che molte di quelle cose non erano affatto ovvie. Anzi, erano decisamente bizzarre."
Eh si, davvero una trama assurda quella de "La colazione dei campioni", un libro che sembra scritto quasi nel momento stesso in cui il suo autore lo sta pensando ed immaginando, basandosi sui suoi personali ricordi, e tu lo stai leggendo, aggiungo anche.
Si veda il seguente passo questa volta preso direttamente dal libro di Vonnegut:
"Non so chi inventò il body bag. So chi inventò Kilgore Trout. Io."
"Lo feci coi denti storti. Gli diedi i capelli, ma glieli feci bianchi. Non lo lasciavo pettinare né andare dal barbiere; glieli feci crescere lunghi e arruffati".
"Gli diedi le stesse gambe che il Creatore dell'Universo diede a mio padre quando era un vecchio mal ridotto. Esangui come manici di scopa. Senza peli. Tutte nozzolute per via delle vene varicose".
E ancora:
"Trout tirò fuori dal baule lo smoking e lo indossò. Somigliava molto allo smoking che avevo visto indosso a mio padre quando era molto, molto vecchio".
C'è anche tanta satira e critica sociale al modo di vita americano e un continuo dissacrare i simboli e i suoi miti fondatori, come Thomas Jefferson, "un proprietario di schiavi che era stato uno dei maggiori teorici del mondo in fatto di libertà umana".
E ci sono tante tante trame di fantascienza, libri interi immaginati dalla mente fervida di Vonnegut, attraverso il personaggio del suo alter ego Kilgore Trout, quasi da ricordare J.L Borges e la sua letteratura immaginaria, un J.L. Borges solo forse meno erudito, scuramente più folle, ma non meno filosofico.
E spesso all'interno di questi libri "di fantascienza" c'è la Terra visitata dagli alieni, con futuri immaginati che Vonnegut-Trout usa per esprimere critiche più universali che calzano al mondo moderno, quello dei social networks e non solo, in maniera direi quasi inquietante.
"Sulla Terra le idee erano simbolo di amicizia o inimicizia. Il loro contenuto non aveva importanza. Gli amici andavano d'accordo con gli amici al fine di esprimere amicizia. I nemici non andavano d'accordo con i nemici al fine di esprimere inimicizia."
Ma c'è sempre, al di là della critica, un grande senso di pietà verso l'umanità intera e sopratutto quella dei suoi personaggi, tutti un po' vittime dei loro traumi esistenziali, come Dwayne Hoover, orfano di madre alla nascita e abbandonato dal padre nella culla.
"La madre era una macchina gestatrice difettosa. Si ruppe automaticamente nel dare alla luce Dwayne. Il tipografo scomparve. Era una macchina disapparitrice".
E per finire qualche parola sul finale fantasmagorico, in cui Vonnegut-Trout, dopo che Dwayne Hoover ha scoperto, nel libro di Trout, il suo destino e la sua vera natura di unico essere cosciente nell'Universo, arrivando inesorabilmente alla pazzia, libera, anche lui un po' nella parte di un Dio, tutti i suoi personaggi, cane Kazak compreso.
E soprattutto viene liberato Kilgore Trout stesso, dopo uno struggente dialogo con il suo autore.
O, meglio, è il Dio-Autore che se ne va, lasciando solo Trout nel suo mondo, sparendo per sempre alla sua vista.
"Capitombolai pigramente e piacevolmente nel vuoto, che è il mio nascondiglio preferito quando mi smaterializzo. Le grida che Trout mi lanciò dietro s'affievolirono man mano che la distanza fra noi aumentava.
"La voce era quella di mio padre. Udii mio padre... e vidi mia madre nel vuoto. Se ne stava lontana, lontanissima, perché mi aveva lasciato in eredità un suicidio.
"Uno specchietto passò vicino. Era una falla con manico e cornice di madreperla.
"La afferrai senza difficoltà, lo sollevai davanti all'occhio destro, che si presentò così: (1)"
"Ecco cosa mi gridò dietro Kilgore Trout con la voce di mio padre:
Fammi giovane, fammi giovane, fammi giovane!"
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(1) L'immagine finale, con la lacrima che cade dall'occhio destro del suo autore, come tutte le altre che sono un valore aggiunto estremamente importante (si veda all'nizio quella dello sfintere, per spiegare agli alieni come è fatto un buco di c...), purtroppo non la posso riprodurre, ma vi assicuro che è un tuffo al cuore, l'ultimo regalo di un grande libro.
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