Poco prima di morire, mio padre mi disse: “Sai? Tu non hai mai scritto un racconto in cui ci fosse un cattivo”.
Gli dissi che questa era una delle cose che avevo imparato all'università dopo la guerra.

Con sincera mortificazione confesso che questo è stato il mio primo incontro con Kurt Vonnegut, e che è successo soltanto qualche giorno fa.

Ma comunque.

Così va la vita.

Mattatoio n°5 è stato pubblicato nel 1969. È la storia di Billy Pilgrim; soldato semplice americano nella seconda guerra mondiale. Billy è ancora un moccioso, è un imbranato, sprovveduto, indifeso pure da se stesso, pare più un ridicolo turista che un militare. È evidentemente fuori posto, ma anche fuori spazio; Billy viaggia attraverso il tempo e lo spazio. E la notte in cui sua figlia si sposò fu anche la notte in cui per la prima volta fu rapito dagli alieni e portato sul lontano pianeta Trafalmadore, dove fu esposto in un museo in rappresentanza della specie terrestre.

Ma di fatto, siamo anche a Dresda. Siamo soprattutto a Dresda. Dresda prima, dopo e durante uno degli episodi più tragici e controversi della nostra piccola storia contemporanea di piccoli esseri umani, che ogni tanto non rinunciano al gioco del massacrarsi a vicenda.

Mattatoio n°5 è una fantastoria, una storia di fantascienza la cui trama nonsense, befferda e satirica è solo lo strato che riveste la grottesca brutalità degli orrori della guerra. Forse l'unico accettabile.

Cosa si può dire infatti di fronte ad un efferato bombardamento che ha provocato decine di migliaia di morti, abitanti di una città che non era mai stata toccata dalla guerra, dove non c'erano basi militari e che non rivestiva alcuna importanza sotto l'aspetto strategico. Cosa di può dire di accettabile che si avvicini anche solo lontanamente a una ricostruzione di senso? Sarebbe forse più facile cadere in preda all’afasia. O riportare numeri freddi, inquantificabili razionalmente, di morti. Morti ammazzati e ammassati che un tempo erano uomini e donne. E bambini. Kurt tutte queste cose le sapeva meglio di chiunque stronzo sia ora qui a dirgli quanto sia stato bravo. Queste cose lui le sapeva. Le sapeva.

Kurt Vonnegut, americano di quattro generazioni, ma di origini tedesche, fatto prigioniero dai nazisti, a Dresda in quei giorni c'era. Nascosto in una grotta, scavata sotto un mattatoio.

E per questo, io adesso non sarà l’enesima povera stronza a scrivere per l'ennesima volta che questo è un capolavoro e uno dei romanzi antimilitaristi più grandiosi e, per assurdo, razionalmente quanto umanamente, accettabili siano mai stati scritti. Dirò solo che ho letto e chiuso il libro con questo pensiero più grande in testa; che dovremmo essere infinitamente grati a lui e alla sua testimonianza. Per aver saputo ancora sorridere calpestando il suolo lunare di una città ridotta in macerie, e aver dimostrato di avere ancora una sincera umanità nei confronti di questi piccoli quanto ridicosi, pretenziosi, miseri esseri umani.

Solo una volta finito, due giorni fa, mi sono accorta che sono dieci anni esatti che Vonnegut se n’è andato.
Però a volte ritorna ancora.
Così va la vita.

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