Ci sono giorni in cui sento la necessità di staccare la spina al frastuono della vita. Anche solo per qualche attimo. Chiudere la porta in faccia alla frenesia dei nostri giorni. E, quando possibile, dimenticare per un po’ le ansie e insofferenze che rimbalzano nell’animo. Spesso la medicina migliore può essere uno sguardo o un sorriso della persona amata.
Ci sono volte invece in cui sento il bisogno di stare solo con me stesso, con i miei pensieri, e di attaccarne un’altra di spina. Quella dello stereo. Abbandonarmi alla poesia del suono, al caldo abbraccio della melodia, alla scarica adrenalinica del ritmo. Certa musica ha una capacità terapeutica e distensiva niente male. E paradossalmente negli ultimi tempi sono le terre del freddo a portarmi questo calore.
“A Giant’s Lullaby”, dei norvegesi Kvazar, è uno di quei dischi che scavano nel profondo. Lentamente ed incessantemente.
Un disco dai contorni rarefatti e dalle molteplici sfumature, che evapora in aromi inebrianti. Una musica che parla un linguaggio universale, che tocca le coste dei generi più disparati, ma procede imperterrita nel proprio viaggio alla scoperta dell’emozione. Navighiamo i mari del progressive, ma sono acque in costante movimento, dove ogni flutto nasconde un imprevisto. I Kvazar sanno sorprendere, per la loro creatività senza schemi e soprattutto per la capacità di rendere facilmente assimilabili anche le partiture più intricate. Si passa con la massima disinvoltura dalle suggestioni ipnotiche dell’opener “Flight of Shamash”, condita da vocalizzi in stile gregoriano, agli accenni di folk celtico di “Choir of Life”. Una vera e propria fiera del vintage, dove un flauto traverso si alterna ad un mandolino pizzicato, mentre prima il mellotron e poi un synth tipicamente seventies gareggiano a disegnare atmosfere sognanti ed evocative.
“Dreams of Butterflies” è probabilmente il brano più affascinante del disco, con i suoi innumerevoli umori. E forse anche quello che più si avvicina al progressive di tradizione scandinava, nel suo volo imperscrutabile che si spinge persino in territori jazzistici. Ma nel caleidoscopico universo dei Kvazar c’è spazio anche per la psichedelia, dallo space-rock di pinkfloydiana memoria di “Spirit of Time” alle dissertazioni arabeggianti di “Desert Blues”. In men che non si dica si passa al soft jazz di “Sometimes”, che presenta una divertente citazione a “Shiny Happy People” dei R.E.M. A chiudere il disco ci sono invece due canzoni che evidenziano, se mai ce n’era bisogno, l’eclettismo di questa band. La title-track è un brano di struggente bellezza, impreziosito da un’introduzione che gigioneggia sulla melodia di “Summertime” per poi destreggiarsi tra momenti romantici ed altri più movimentati, sporcati qua e là da ritmiche mediterranee (!).
“Dark Horizons” chiude infine il sipario ritornando su territori progressive, quelli più romantici e sognanti, con il flauto a cercare delicati intarsi che ci conducono ad un finale tra percussioni e cori di matrice etnica.
Era da tempo che non mi capitava in mano un disco di questa caratura. Se da questa breve descrizione vi siete fatti l’idea di un’opera di esagerata varietà o complessità, mi sento di potervi rassicurare. Questo è un lavoro moderno ed immediato, pur nella sua straripante libertà espressiva. Consigliato a tutti gli amanti della musica senza frontiere.
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