Già nel 1985 i dischi di rock ai confini del metal e viceversa si buttavano. Forse, per eccesso di passione da parte dei fans, quello di cui vi sto per parlare ancora oggi viene idolatrato come se si trattasse di un capolavoro inestimabile. Ma bisognerebbe essere un attimino più cauti. Per riprendere una battuta di Gigi Proietti in “Febbre da Cavallo”, i più burini di tutti i burini della scena rock 80 (a dire il vero, secondi solo ai Nitro) sono sicuramente i Keel, che prendono il nome dal cantante Ron Keel, ex capobranco degli Steeler. Avevano già rilasciato un disco l’anno prima, ma quello che oggi tutti ricordano con piacere (un po’ di meno io) è questo "The Right To Rock", che ha molto di buono ma non fa altro che relegare questa band tra le seconde linee dell’hard&heavy. Una specie di disco “asso piglia tutto”, vista la proposta musicale variegata (e qui sicuramente scopiazzata).

Prima di affondare sull’album, vorrei chiudere il mio ragionamento. Credo che all’epoca i mattatori fossero ben altri e quando leggo recensioni sul web con giudizi altissimi, mi viene da pensare che questo è il tipico caso in cui bisognerebbe sbucciare le apparenze e andare dentro il disco con serietà. Non bastano un titolo anthemico, un pezzo da rivolta e un’immagine da bulli duri a fare un album. Serve, naturalmente, molto di più e i Keel, premiati solo da una produzione durissima (Gene Simmons, anche compositore di qualche brano), di più non avevano proprio niente.

Disco per estimatori (io ce l’ho), questo "The Right To Rock" è realmente tamarro e non saprei come altrimenti definirlo. In un’epoca in cui i vari Quiet Riot (molto simili), Dokken, Kiss, Twisted Sister e WASP (usciti l’anno prima) ci avevano già fatto ascoltare tutto, risulta essere abbastanza pretenziosa questa patina metallica e da punitori di cui i Keel si erano rivestiti. L’unico merito da ascrivergli è proprio il titolo dell’album che, negli States reaganiani in cui si combatteva la battaglia contro l’hard rock e l’heavy metal di ispirazione “cattiva” – la risposta delle varie formazioni era stata sempre diversa, dall’indottrinamento del Bon Jovi alla sottile copertina di Big Game dei White Lion -, reclamava in maniera decisa il diritto a fare musica estrema per quei tempi. Per il resto, la proposta è graffiante all’ascolto, priva di compromessi e ballads ma alla qualità del suono non fa seguito l’estro compositivo e, soprattutto, fossero stati prodotti peggio, sarebbero venute fuori in maniera chiara – e non coperta sapientemente da Simmons, che onestamente aveva visto male – la stanchezza e la lentezza di molte delle singole tracks. Noiose e boriose, già sentite e inutilmente mescolanti stili diversi, dal class allo street, dall’hard rock all’heavy metal. A differenza degli Steeler, qui Ron Keel la fa nettamente da padrone anche nel video della title track. Ecco, si tratta di una band che fin dal nome è “frontman centrica” e sembra voler dare visibilità a lui e alle sue voglie musicali. Il resto del gruppo si perde senza mettere in scena nessuna dote particolare. Buona comunque la title track, e buona pure è la cover degli Stones "Let’s Spend The Night Together". Poi si naviga tra songs costruite per fare scena ma si fermano, secondo il sottoscritto, all’apparenza. Niente di nuovo sotto la luce del sole.

Una di quelle tante band che probabilmente si merita di essere categorizzata come “hair”. Parola che a me piace come la cucina cinese fatta in Italia.

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