Quando sento parlare di L7, penso istantaneamente a "Bricks Are Heavy", considerato all'unanimità il miglior album in assoluto del quartetto losangelino. "Pretend We're Dead" è un fardello pesante e bissare il successo dell'album da cui è tratto non è cosa semplice. Pertanto "Hungry For Stink", successore diretto di "Bricks Are Heavy", rimarrà sempre e ingiustamente in secondo piano, classificandosi come lavoro più sottovalutato delle L7.
Pur restando fedelmente ancorato al sound heavy della band, "Hungry For Stink" offre nuove sonorità e nuovi appigli musicali, forgiando uno stile originale rispetto alle colleghe del foxcore (e distaccandosi leggermente dal modello Plasmatics/Runaways). Ad "Andres" è affidato l'(arduo) compito di aprire l'album: parte immediatamente con un riff scabroso e potente, ad introdurre i vocal gravi e quasi maschili di Donita Sparks. Le ragazze non perdono ancora di vista lo stampo punk/metal che da sempre le contraddistingue. Ciononostante "Andres" si colloca agli apici della loro produzione ed è degno del capolavoro "Bricks Are Heavy".
"Baggage" è la seconda traccia, un grunge che strizza più volte l'occhio al metal, principalmente nei riff delle chitarre. Lo stile vocale è tra i più viscerali adottati nel foxcore (insieme a quello di Courtney Love nei primi lavori delle Hole e a quello della più capace Kat Bjelland).
In "Can I Run" si ritorna alle atmosfere di "Bricks Are Heavy" e più precisamente a quelle del classico "Pretend We're Dead", cui è assimilabile per le irresistibili melodie e per certi atteggiamenti chitarristici. Le L7 fusero definitivamente un sound personale, difficilmente imitabile dalle riot grrrls che le succederanno.
"The Bomb" è la più incazzata, rimanda pertanto al primo disco omonimo della band, anche per alcuni nervosismi a livello vocale nonché chitarristico. Ad un ascolto superficiale potrebbe risultare punk, ma non è abbastanza veloce, dunque può essere meglio definita come un grunge/metal sopraffino per certi versi melodici. Insomma un pezzo decisamente teso, che coinvolge alquanto per i tribalismi della batteria. Uno dei pochi punti noiosi dell'album è rappresentato da "Questioning My Sanity", che mi sembra un outtake del sopraccitato debutto. Il lavoro chitarristico di Sparks e Gardner è però infinitamente più maturo rispetto allo stile di "L7" e viene eseguito magistralmente.
Si fanno notare interessanti sperimentalismi nel punk di "Riding With A Movie Star", come testimoniano l'uso delle tastiere e l'assolo di chitarra "egiziano", senza perdere però di vista la componente grunge. Il pezzo è decisamente cosmopolita, a maggior ragione per l'impiego di percussioni africane e per l'atmosfera generale che rimanda vagamente a "Walk Like An Egyptian" delle Bangles (privato, naturalmente, di una certa attitudine heavy).
"Stuck Here Again" è un brano dall'aria blues-like, dai toni più soft rispetto al resto del disco e si rivela un momento particolarmente disteso (si fa per dire) e diverso sul piano sonoro. Nelle liriche appaiono però giochi di parole apparentemente insulsi (I'm good at feeling bad/ I'm even better at feeling worse), a trasmettere un senso di solitudine-noia-dolore.
L'episodio migliore del disco è a mio avviso "Fuel My Fire", composta da Donita Sparks con la collaborazione dei Cosmic Psychos, gruppo rock attivo dagli Eighties che influenzò molto gli artisti grunge di Seattle, su tutti Mudhoney e Pearl Jam. Se non fosse cantata da una donna, "Fuel My Fire" potrebbe venire difatti tranquillamente scambiata per un pezzo qualunque dei Mudhoney (con tutto il rispetto per Mark Arm e soci!), forse l'unico neo è appunto il fatto che sa di già sentito.
Chitarra ritmica e solista s'intrecciano alla perfezione in "Freak Magnet", a creare riff e assoli indimenticabili. La furia vocale di Sparks è incontenibile, Scaruffi la paragona a quella di Hope Nicholls dei Fetchin Bones, una riot grrrl ante-litteram dalla voce stratosferica; mi sento di dire che tale paragone risulta azzeccatissimo. Scorrono gradevolmente "She Has Eyes" e "Shirley": la prima, come tutte le composizioni di Jennifer Finch, risulta il momento più pop, per via del cantato morbido e mai gracchiante, come accade piuttosto negli sfoghi di Donita Sparks e Suzi Gardner, ma è comunque sopra la media; la seconda è invece un potente hard rock in puro stile L7, dai vocal affilati come lame e dalla batteria essenziale e martellante.
Un'ulteriore prova dell'effettivo valore di "Hungry For Stink" è "Talk Box", un vero e proprio viaggio attraverso rumori e psichedelia, il tutto guidato dalla voce quanto mai sognante di Sparks e da un assolo sofferto. Più di un critico vi ha riscontrato l'influenza di Grace Slick, affermazione che non condivido appieno. Il brano rimane, comunque, una conclusione magnificamente mesta e rabbiosa in latenza.
Sarei tentata di dare a quest'album cinque stelle, ma "Bricks Are Heavy" continua a pulsarmi in testa: difficile dimenticarlo.
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