Mauro Ermanno Giovanardi, cantante del gruppo milanese La Crus, è fondamentalmente un depresso cronico. Probabilmente, se interrogato sull’argomento, giurerebbe e spergiurerebbe che non è vero, che sono fandonie e falsità. Nelle poche email che ci siamo scambiati qualche tempo fa, nelle quali gli chiedevo notizie di un non ben specificato concerto a Rimini (concerto al quale non sono potuta andare perché, così sembra, i La Crus fanno schifo a tutto il mondo tranne alla sottoscritta e poche eccezioni, e di andarci da sola non mi andava) ostentava anche una certa verve, una supposta loquacità, ma, a dispetto del mio nick, non me l’ha data a bere: sguardo perennemente perso nel vuoto, broncio, spaventose occhiaie che adornano un visetto scavato, voce bassa e tremula, tutto in lui rivela questa tristezza di fondo, tristezza alla quale gli altri componenti del gruppo, Alessandro Cremonesi e Cesare Malfatti, sembrano accodarsi molto bene, vezzeggiandola, coccolandola e non ostacolandola affatto. Quindi: sto per recensire un disco di un branco di depressi. Non potrei lasciar stare e andarmene a fare, che so, una passeggiata in bicicletta, si domanderà qualcuno? Sì, in realtà potrei. Ma sta per piovere. E tra l’altro non ho la bicicletta.

Ho incontrato i La Crus nel modo che mi è congeniale, vale a dire per caso. In un pomeriggio piovoso, in cui mi ero rifugiata bestemmiante in un negozio di musica poiché ombrellopriva, mi ha attirata una copertina nello scaffale ARTISTI ITALIANI OFFERTE sulla quale il giallastro, il marroncino, il verdognolo si mischiavano al nero e le tre facce sfocate sulla sinistra sembravano preda di chissà quali cupi pensieri. Le lettere stampate recitavano Dentro Me – La Crus. Qualche ora dopo ero sul letto, a occhi chiusi, a fluttuare sulle note del disco che sarebbe diventato uno dei miei preferiti, colonna sonora di mille giornate, serate, gite, incontri e, perché no?, di mille salutari pianti.

Dentro Me è l’intimismo fatto disco, in un triplice senso.
Le atmosfere sono rarefatte, molto morbide, complice l’ampio uso della tromba in sordina, della chitarra acustica, degli archi, e il ricorso a campionature ed elettronica che, strano ma vero, acuiscono ancor di più l’ovattatezza (l’ovattosità? L’ovattume? Vabbè) dei pezzi, senza raffreddarne il tono o renderlo asettico. Lo stile è un rock raffinato con qualche virata “caposseliana”, e infatti in uno dei brani, 34 Anni, Capossela è gradito ospite, uno spruzzo di blues in "Qui Vicino A Te", e solo un piccolo episodio strumentale, la canzone "Da Un’Altra Parte", in cui l’armonia del piano campionato e la tromba si intessono con la batteria elettronica e gli archi in un loop quasi trip hop, ipnotico e affascinante.
In secondo luogo l’intimismo dei testi: trattano tutti principalmente di sentimenti.
Niente filippiche, niente lotta dura senza paura, niente plateale impegno politico, solo la difficoltà di vivere (“io non so/quante sere ho consumato a bere/e poi resta tutto uguale a ieri”- Le Luci Al Neon Dei Baracchini), la passione lancinante e non ricambiata, che ti scava lo stomaco e non ti fa più campare (“sei la cella e il prigioniero/l’illusione che cadrà/come sempre l’unica realtà/tu sei l’alito che guida/le mie dita su di te/sei il respiro dentro ai miei perché/tu sei l’inverno in fondo al cuore/sei l’estate che non c’è/tu sei la via che passa dentro me” - Come Ogni Volta), l’isolamento e l’incomunicabilità che solo l’amore possono scalfire (“non esiste alba abbastanza chiara/non esiste notte abbastanza scura/non esiste cibo che possa sfamarmi/non esiste sguardo che possa ferirmi/tutto è dentro me//ma quando io ti guardo/tutto quanto cambia/quando io ti guardo il tempo si ferma/tu sei dentro me” -Dentro Me) e tanto altro ancora.
Ci sono soltanto due episodi movimentati nel lavoro dei La Crus, Dragon e Correre, nel primo un basso tirato e una tastiera che ti fa venir voglia di ballare, il secondo un pezzo drum&bass pregevolissimo, ma il disincanto e la malinconia trapelano anche in questi casi, soprattutto in Correre (bisogna passare la vita a correre, più veloci delle macchine, ma dove, da dove, fino a quando, perché?).

Il disco è intimista anche per un terzo motivo: nelle canzoni, pur firmate da tutti i componenti, il Giovanardi parla principalmente di sé. Si racconta senza remore e da ogni parola, come un fiume in piena, straripa tutto quello che gli passa per la testa, ogni pensiero, ogni congettura sulla sua e sull’umana condizione (ma più che altro sulla sua), sulle sue e sulle umane pene (ma più che altro sulle sue). Il risultato potrebbe risultare un disperato e disperante soliloquio narcisistico, e invece no, perché chi ascolta è portato a identificarsi totalmente con quel che viene cantato, sussurrato, gridato, fintanto che non si accorge che, sì, tante e tante volte si è sentito ESATTAMENTE COSI’. E’ proprio questo che rende perdonabile l’unica pecca del disco, l’irritante Inventario, nella quale Mauro Ermanno ci fa sapere che nella sua stanza alle pareti c’è un quadro di Giacomo Spazio (mica il calendario di Frate Indovino, mica cacchi), sul comodino campeggia un vecchio biglietto dell’Elfo (mica uno del Circo Desmond, mica cacchi), ci sono le immancabili rose appassite e il suo stereo manda Jacques Brel (mica Sabrina Salerno, mica cacchi), insomma ci fa sapere che lui è VERAMENTE un intellettuale lugubre e tormentato e tanto sensibile (mica cacchi). Ma l’ascoltatore attento sorride, bonario, e perdona. Chiude gli occhi e riprende a fluttuare.

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