Lo so, c’è già. Non me ne voglia il buon Stefano, ma, ormai, dici emoviolence e pensi (forse ingiustamente) ai La Quiete, dici screamo e pensi (altrettanto ingiustamente) ai La Quiete.
Ancora, dici Italia e pensi ai La Quiete, dici Debaser e pensi ai La Quiete. Mangi e pensi ai La Quiete. Dici recensione e pensi ai La Quiete, di nuovo. Persino il sermone in chiesa è così pieno di messaggi subliminali che ti impongono di pensare ai La Quiete, che arrivi a casa e non puoi fare altro che scrivere una recensione sui La Quiete. Perché poi ? Perché in fondo i messaggi subliminali ti vogliono bene, ti consigliano, sono saggi e avveduti, posseggono la verità e te la elargiscono gratuitamente e discretamente, senza essere invasivi. Sono profeti, in patria e fuori patria, un po’ come i La Quiete: dopo i Pooh il secondo gruppo italiano più esportato oltreoceano, ma anche dall’altra sponda del lago o del fiume. Sicuramente il primo ad essere esportato senza vergogna.
Scandalosamente originali rispetto alla scena cui qualcuno vorrebbe relegarli (ma chi poi ? La mafia ? Il Papa ?), se la giocano con gli 'Envy' a “facciamo il disco emoviolence più bello di sempre”. La “nuova” scena non regge il confronto: Daitro, Ampere, Amanda Woodward, Yage, Saetia, Hot Cross bla bla bla, nulla da fare per loro, purchè tutti molto piacevoli nel trastullarsi con gli arpeggini, le esplosioni, di nuovo gli arpeggini, ma davvero niente di veramente eccezionale. Un’Italia finalmente orgogliosa del proprio tessuto underground è quella che vorremmo sempre vedere: i La Quiete aiutano. Questi ragazzi di Forlì, hanno contribuito a creare dal nulla una serie di gruppi, e una (oddio) scena in quel di Romagna, che in Europa, in America è sulla bocca di tutti. 'Raein' (sciolti?) e 'The Death Of Anna Karina', oltre ai La Quiete, risuonano nelle camerette intonacate di poster di ogni buon myspace-dipendente nelle terre d’oltreoceano. Ma, al di là dei posters, come spesso accade, è la musica in realtà quella che conta, dunque parliamone. No, troppo difficile, facciamo che prima contano i testi, ma solo per prendere tempo e trovare poi le parole per la musica. Dunque, i testi: i testi sono bellissimi diamine.
Mai l’italiano è stato usato in modo così poetico senza risultare supponente o malinconico senza risultare adolescenziale (e qui vi rimandiamo al testo della title track, vero e proprio inno tra le lacrime); libero dalle catene dell’oppressione metrica, la nostra lingua è un’arma splendida che, certo, si prende il suo tempo per esprimere i concetti necessari, d’altronde non ha la compressione di un buon inglese, ma si rivela un qualcosa di davvero unico, irripetibile.
E la musica… oh cavolo, la musica, è vero… me ne stavo dimenticando. Beh, qui sì che noi italiani, e i La Quiete in primis, si rivelano veri maestri della compressione. Dove solitamente un gruppo come i 'Daitro', toh, non fa certo complimenti nella parsimonia con cui elargisce riff, in 60 secondi i La Quiete tratteggiano, abbozzano un mondo intero, scatenano quello che i 'gy!be' trovano, e non sempre, solo dopo mezz’ora di lamenti strazianti. E’ tutto un accavallarsi di sezioni, di riff in continuo divenire impegnati, mai così tanto, in una incessante, devastante, evoluzione, e il tutto in poco più di qualche manciata di secondi. Da “Raid Aereo Sul Paese Delle Farfalle” che subito stordisce per svelare poi i primi elementi di una ricerca quasi da avanguardia (avanguardia dell’emoviolence sia chiaro) nella costruzione delle melodie e della componente ritmica che ritroveremo in tutto il disco, !fino ad arrivare a “La Fine Non è la Fine“.
Tra queste, canzoni come "Ciò che non Siamo Ciò che non Vogliamo" con un finale strappalacrime, strappacuore, strappatutto, e "Metempsicosi del Fine Ultimo: Nevrastenica Oscillazione Fra Poli Estremi" mostrano tutto il genio musicale di un gruppo che possiede concisione e incisività ma anche un gusto melodico probabilmente unico in Italia e, chissà, anche nel mondo. E poi, su tutto, implacabile, la mazzata finale di una title track che, più che canzone, ha ormai le caratteristiche e le potenzialità dell’inno generazionale. Addirittura? “Hai scritto sul mio corpo che non è la fine“.
Per me, sì.
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