Non credo di aver mai incontrato, in tutta la mia vita di accanito bramoso ascoltatore, un nome più incongruente per una band di questo: La Quiete.

Quei pochi momenti di quiete qui nascosti sono mere illusioni, sono sprazzi di melodia per darci un attimo di respiro, per farci credere di essere ancora padroni di noi stessi, di non essere caduti nella turbinosa ragnatela da loro abilmente intessuta. La Quiete significa confusione sonica, instabilità, perdita sensoriale, allucinazione cosmica, significa “inquietudine”. Le immagini si susseguono in un colorato affresco davanti alle nostre orecchie incredule, che non hanno il tempo di interrogarsi su titoli misteriosi e inconsciamente affascinanti come “Il destino di un ombrello”, “Raid aereo sul paese delle farfalle”, o la montaliana (anche nello stile lirico) “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Le note scorrono impazzite, si rincorrono, inciampano le une sulle altre e su tutto domina un senso di stato confusionale, di perdita di controllo, un vero flusso di coscienza joyciano trasformato in melodie altisonanti che si contraddicono e si incastrano, poi si abbandonano su se stesse e muoiono in preda a qualche raptus isterico.

Se dovessi cercare una frase per descrivere la musica dei La Quiete, credo che nessuna sia più perfetta di quella che apre la canzone “Merce Cunningham”: “Tutto succede in un attimo. L’immagine...” e poi via, veloci come il vento, in preda alla follia più cieca che fa urlare, sbraitare, e il malcapitato ascoltatore non riesce a comprendere il resto del testo: “...non è più un torrente che scorre fra le rocce”. Certo, ma io lo so perchè l’ ho letto: voi non lo capirete. State tranquilli. Perché è vero che qui tutti i testi sono in italiano; ma se fossero in cinese o in serbocroato non credo che il cambiamento sarebbe traumatico. Ciò che deve farci riflettere è come tutto questo sia un effetto voluto: non solo il totale squilibrio alienato e omicida che anima ogni canzone, ma anche la stessa poca comprensibilità dei testi, incastonati tra chitarre che salgono e scendono per perdersi dopo un attimo nel nulla infinito. Anche la stessa forma dei testi, trascendenti, poetici, pseudo-filosofici ma dall’animo confuso, partecipa a questo grande gioco sadico messo in atto dal combo italiano. Dicevamo, perché tutto questo? La Quiete vuole rappresentare la più pura rappresentazione dell’ inconscio umano, del pensiero puro che si manifesta in noi senza controllo, senza che ce ne accorgiamo. Qui le parole non sono mediate: tutto è puro, incontaminato.

E’ una vera e propria trasposizione musicale in ambito post-hardcore di quello che il surrealismo ha tentato di fare nell’arte e nella letteratura. Il pensiero è strappato violentemente dall’inconscio e sputato nella canzone. I testi scorrono spesso senza un significato apparente, è tutto nascosto, leggermente suggerito. Ma non mi riferisco unicamente ai testi: anzi, parlo principalmente della musica. Ascoltare i La Quiete significa intraprendere un viaggio mentale che riesce a mettere a dura prova la nostra stabilità psichica, perchè la stessa struttura musicale riflette la struttura pura del pensiero, la stessa musica è un flusso di coscienza che sale e scende e non trova pace (o meglio, quiete). Prendete l’ultima canzone dal titolo significativo: “Metempsicosi del fine Ultimo: Nevrastenica Oscillazione fra Poli Estremi”. Che significa? Non so voi, ma io non lo so. E ancor più mi porta fuori strada il testo, quasi una sorta di invettiva al conformismo. Timidamente arrivano le prime parole, quasi balbettate, ma decise: “L’industria culturale...” e poi si accelera e quel pensiero sfuma e si perde nel vuoto. “..fino al raggiungimento del completo livellamento degli individui ridotti a zero e integrati nella cultura dominante espressione del potere”. Tutto sputato come un pensiero di rabbia soppressa, forse rimossa, che fuoriesce come un vulcano in eruzione, e si perde nelle fitte tele delle chitarre. E’ grandioso tutto ciò. Sembra esserci un’attitudine grind nei La Quiete, ma che non si risolve in una distorsione di chitarra o nella velocità di un doppio pedale; sfuma invece in un flusso di pensieri accavallati, ricreati chirurgicamente con una sapientissima tecnica esecutiva che fa pensare a qualche rivelazione avuta dal gruppo in un momento di trascendenza mistica.

Smettete di guardare nostalgici verso la Svezia o l’America; smettete di credere a chi pensa che l’ Italia valga poco musicalmente, a chi crede che nemmeno esista una scena post-hardcore nel Bel Paese. Soprattutto musicalmente, io sono quanto di più lontano ci possa essere dal nazionalismo, e adoro tutto ciò che viene proposto dai nostri compagni stranieri; ma quando ascolto dischi così mi sento orgoglioso di essere italiano. E questa non è una cosa da poco, credetemi. Perché tutto succede in un attimo. L'immagine...

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