Tenpeun, o Dell’infanzia della Perfezione.
Chiedo primariamente scusa per questa recensione, non credo sarò capace di scrivere, parlare in maniera oggettiva (è stato mai possibile?), trascurando sentimenti e quant’altro. Saranno parole imprecise, indistinte, probabilmente bugiarde. Chiedo anche, a quelli che leggeranno tutto questo, di essere tanto sinceri quanto clementi.
A tutti, a tanti, almeno a me – è ben nota la necessità degli uomini di fare della propria storia la storia di tutti – è capitato di ascoltare “Spiderland” prima di “Tweez”, o, più in generale, gli Slint, prima degli Squirrel Bait, più semplicemente “Nevermind” prima di “Bleach” e così via. Si parte sempre dal più noto, dal più importante, dal più influente, e poi si passa a quello che c’era prima, all’infanzia della Perfezione.
E quando si compie un’operazione del genere si ha come la sensazione di affezionarcisi di più, come a qualcosa di più vicino, di più familiare, di più amichevole, non che sia necessariamente migliore, non che sia necessariamente più bello, ma è come vedere i propri eroi che giocano coi pupazzi e vanno a dormire alle dieci, e alle undici quand’è natale. Ascolti le urla dei La Quiete del duemiladue e senti che magari possono essere tuoi amici, quelli che ti fanno ascoltare timidamente quel che hanno registrato una settimana prima, e ansiosamente aspettano il tuo parere, a metà tra il timore e l’eccitazione. E tu, sorpreso, magari gli dici che faranno strada, che se continuano così arriveranno, anche se probabilmente lo sai che non arriveranno mai. Sono amici, amici Tuoi. E tu sei là, con loro, dentro quel che ascolti.
È giusto però che io parli del disco, magari. “Tenpeun” è una raccolta che i La Quiete han fatto uscire nel duemilasei, esattamente due anni dopo quel capolavoro che è “La Fine Non è La Fine”, diciannove pezzi registrati a partire dal duemilauno, sparsi in maniera pressoché casuale lungo trentadue minuti di musica. C’è la violenza pura e originaria di “Mandorle Amare..” o “Greyskull”, ma anche l’innocente e spontanea melodia di “Che Tu Sia Per Me Il Coltello” o del meraviglioso finale, “Alle Foglie”, dove trova spazio anche una sottile linea di piano. Si tratta probabilmente di un lavoro frammentato, eterogeneo ed impreciso (come immagino sia questa recensione), ma è appunto un riassunto di quel ch’è stata la nascita e la lenta evoluzione di un gruppo che silenziosamente s’è fatto spazio, che col tempo ha imparato a urlare il proprio nome, quasi lo sapesse già, quasi sentisse dentro di sé quella Perfezione a cui sarebbe approdato un giorno, come un destino inconscio e tacito. Sì, è probabile, loro lo sapevano già, lo han sempre saputo, sin da quando si attardavano coi camioncini della copertina, lo sapevano. E ora lo so anche io.
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