Anno 1999. I Labradford dopo album clamorosamente intensi e notturni arrivano al loro capolavoro. E come solito progrediscono alla loro maniera: sottraendo elementi al loro sound invece di aggiungerne.
In questo lavoro la voce scompare del tutto, la musica rallenta e si sfilaccia, ogni nota ed ogni spazio vuoto assumono una valenza a loro stante, si rimane sospesi in un paradiso sonoro di una semplicità disarmante ma allo stesso tempo geniale. La parola che ti viene in mente ascoltando e riascoltando queto ben di dio è ipnosi. Proprio così. "E luxo so" ti rende incapace di reagire agli input esterni, ti "governa" con delicate e crepuscolari melodie, ti fa perdere letteralmente la cognizione del tempo. Insomma musica impressionistica e minimalista, poche note (magari anche in loop) ma quelle poche tutte a bersaglio. Il trio di Richmond (che deve il suo nome ad un misconosciuto giocatore di basket, tale Seth Labradford) ha abbandonato qui anche i titoli delle canzoni che risultano essere ironicamente i crediti dell'album. Sei tracce che non hanno più quasi niente a che vedere con gli esordi ma che sono la summa della loro continua sperimentazione. Non voglio neanche per sogno parlare di una canzone rispetto ad un'altra. In questo disco non ha alcun senso. È solamente un unico tappeto sonoro con un disegno lineare, senza ricami diciamo, che incanta per la sua grezza semplicità. Lascia lì ipnotizzati, induce la narcolessia, la malinconia (quella buona!) ed alla fine se ne rimane felicemente schiavi. A me è successo così e spero succederà (o è successo) così anche a voi.
Friabili e sognanti tratteggi acustici vengono abbozzati solitamente dalla chitarra o dal pianoforte e sono amalgamati a sfrigolii di elettricità statica sensuali e discreti. Di volta in volta si aggiungono pochi elementi con un'attenzione straordinaria per i dettagli. Il tutto disposto dentro spazi ritmico-sonori estremamente dilatati in cui il basso è come se aprisse un intercapedine, un vuoto esistenziale che attira il resto degli strumenti per farceli galleggiare dentro. Un viaggio temerario tra sinfonismi minimali e spettrali rarefazioni, malinconia che si fa struggimento ed infine languore, dolcissimo languore, da leccare e tenersi il sapore in bocca. È un disco "lontano" e fragile, è un'effige straordinaria del suono imploso. Il tipico suono dei Labradford qua è mutato ancor più in un elogio alla lentezza riuscendo con immagini musicali sfocate ad elevare ciò in una sorta di ambient/post-rock personale e caratteristico. Come se una notte di dicembre si specchiasse in un lago ghiacciato.
Resteremmo ad osservarla col terrore che un piccolo rumore possa distruggere la sottile magia.... dopo c'è solo il silenzio di un solitario viottolo di campagna.
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