L'attesa del nuovo full-lenght dei milanesi Lacuna Coil era moderata. La band vive ormai del successo indiscusso maturato in 10 anni di carriera, cresciuto attraverso l'approvazione del pubblico (soprattutto europeo) e della critica, nonostante la loro discografia appaia oggettivamente corta (due ep e 4 full-lenght). L'ultima fatica del gruppo in realtà una fatica non è.

I suoni sono consolidati, le voci incastonate nello sterotipo del genere quanto della band stessa, e lentamente Andrea Ferro appare accompagnare Cristina in backing vocals più che in duetti (finalmente, aggiungerei, vista la scarsa espressività del cantante dal 96 ad oggi). Non scandalizza quindi ammettere che di questo disco in pochi sentivano veramente la necessità, e se la frontman gode dei più disparati e grotteschi titoli che si possono affrancare ad una donna in carriera, la maggior parte che ormai esulano dalle capacità musicali, ecco che il quadro si delinea più chiaramente.

"Karmacode" è stato presentato al pubblico attraverso il singolo "Our Truth", passato da radio e televisione con la stessa frequenza di un video di Avril Lavigne. Non spenderò tempo a parlare del video, se ancora non l'avete visto, pazienza, sopravviverete come si sopravvive ad un pizzico di zanzara. Il singolo, dicevo. L'intro synth, l'incedere delle chitarre, la struttura, rimandano con troppa immediatezza a diversi brani del disco precedente. Come spesso accade, il singolo non rappresenta il disco, e la tendenza anche in questo caso viene rispettata. Ma quando passi all'ascolto complessivo, qualcosa sembra proprio non funzionare.
I primi tre pezzi si rincorrono frettolosamente, i vocalizzi di cristina in "Fragile" appaiono sempre più superflui, la coesione dei pezzi si mantiene senza particolari soluzioni creative e le capacità dei singoli sono offuscate reciprocamente. Da qui in poi sarà chiaro che i Lacuna Coil non vogliono rischiare, e fanno male, proprio perchè la sezione ritmica è all'altezza di prestazioni decisamente maggiori, la produzione di Waldemar Sorychta varrebbe di per se da garanzia, e il missaggio è affidato a Ronald Prent, già Iron Maiden e Rammstein.

Così da un momento all'altro le chitarre acustiche di "Within Me" fanno ritrovare un piacevole interesse all'ascolto, e la successiva "devoted" cattura, ma l'attitudine purtroppo è la stessa delle canzoni che le precedono e quelle che seguiranno, banali e prive di mordente. Quasi inascoltabili la diade "You Create/What I See", scarne e mal arrangiate, come la discutibile "Fragments Of Faith". In coda al disco, "Without Fear", un'ulteriore dimostrazione di come la lingua italiana non sia facile da inserire in un certo tipo di musica, non per limiti della lingua, ma per la superficialità con cui questa viene trattata, e la cover di "Enjoy The Silence", degli intramontabili Depeche Mode, azzeccata, piacevole, equilibrata.

Decisamente troppo poco per un disco che gli stessi compositori descrivono con palpabile entusiasmo: "ci è voluto molto tempo per mettere insieme queste canzoni e posso dire che sono le migliori che abbiamo mai scritto!"

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