Le pretenziose architetture congetturali che hanno orbitato intorno ad ARTPOP (maiuscolo, non sia mai) fin dalle prime comunicazioni ufficiali chiamavano in causa l'Arte promettendone un inserimento all'interno del contesto pop musicale (una "reverse Warholian expedition", citando la stessa Gaga), ma è evidente che non basta scomodare Botticelli o Jeff Koons per colmare di senso un recipiente solo in apparenza così laccato.
Iniziando dall'opening Aura, che rende, nei suoi quattro minuti e mezzo di techno uptempo in salsa mariachi, davvero evidente quanto l'autrice stia confondendo l'ecletticità in fase compositiva con un insensato caos autoreferenziale, Gaga prova disperatamente a suonare sperimentale e cinematografica (il parlato meccanico nell'incipit di di G.U.Y., l'apertura "cosmica" di Sexxx Dreams, la clap-dance teatrale di Applause) dimenticandosi forse di quanto l'iper-produzione, o forse più semplicemente una scrittura non altezza, lascino suonare ogni singolo brano sterile e, in fin dei conti, massificato e allineato rispetto alla restante scena electro-pop.
Risulta quasi superflua la volontà di dare un senso più ampio all'oper(ett)a, fosse anche solo per la scelta di ricondurla ad un ideale lavoro tripartito (in cui il centro dell'album, Artpop, fa da leva agli estremi Aura e Applause, entrambe a concludere le lyrics con la parola "Artpop"), ma si rivela effettivamente poco più che finesse stilistica a perdere, considerato il vuoto siderale di cui tutto il resto è pregno, a partire dal pretenzioso featuring black di Jewels And Drugs (la peggiore) fino al mimico homage parodistico di Donatella.
Gaga, alla fine, riesce a intrattenere soltanto quando riduce l'esperimento ai minimi termini tornando banalmente alla forma disimpegnata dei primi lavori: G.U.Y., che difetta un po' di melodia nel ritornello, si appoggia in realtà su uno splendida linea synth; MANiCURE, auto-dichiaratasi filler già dal titolo, si affida ad un beat a presa rapida per sfiorare tematiche velatamente sessuali, amplificando una tendenza a dire il vero fin troppo esplicita in Sexxx Dreams, e mentre l'anthem confessionale di Gypsy rimanda ad alcuni episodi del suo sophomore dark-romantico, l'equilibrata Do What You Want si conferma, a oggi, uno dei suoi singoli migliori.
Peccato che il resto, cioè la concettualità di cui l'autrice vorrebbe impregnare l'opera, crolli irrimediabilmente sotto il peso enorme delle sue iperboliche dichiarazioni e di uno scarto massiccio tra presunzione d'intenti e prodotto finito. Questa di certo non è Arte, e Lady Gaga, pur con un' ottima vocalità e una capacità "catalizzatrice" non comune, non è David Bowie. Nonostante "il suo Artpop possa voler dire qualsiasi cosa", come tiene a specificare nell'ipnotica ma ridondante title-track, quasi seppellendo e vanificando tutta la patinata impalcatura artistoide, la verità è che qui, dopo l'ascolto, è rimasto davvero poco o nulla. Peccato.
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