"Let It Be", come intuibile fin dal titolo e dalla copertina, è il rifacimento dell'omonimo album dei Beatles.
Conoscendo lo spirito dissacratorio che da sempre contraddistingue la formazione slovena non ci stupiamo oltremodo: l'intera opera dell'industrial act Laibach, a guardar bene, è uno spietato processo di trasfigurazione delle convenzioni del rock, specie nella sua dimensione più canonica e commerciale. Più volte li abbiamo scovati con le mani nel sacco a violentare titoli da alta classifica ("One Vision" dei Queen, "The Final Countdown" degli Europe, "Dogs of War" dei Pink Floyd, la celebre "Jesus Christ Superstar" dell'omonimo musical, "Life is Life" degli Opus, "Sympathy for the Devil" degli Stones, tritata in ben sette allucinate versioni). E in questo gioco al massacro, in cui gli originali vengono stravolti e spogliati del loro significato originario, non vengono risparmiati nemmeno Lennon e compagni, i più intoccabili di tutti.
Non si pensi però ad un semplice scherzo goliardico da parte di un gruppo di allegri buontemponi. La musica dei Laibach ha in realtà una ben definita valenza concettuale, e non è un caso che la loro scelta sia caduta questa volta sui Beatles, icona immortale del rock popolare, e sul loro ultimo album, di certo non il migliore, figlio di quella disgregazione che già investiva la band negli ultimi tempi e che porrà fine alla folgorante carriera dei quattro di Liverpool. E' palese in questa scelta un attacco alle istituzioni (perché i Beatles, volenti o nolenti, sono divenuti un'istituzione). E riprodurre per intero il canto del cigno della band rock più acclamata del globo diviene l'occasione per celebrare la decadenza del rock tutto e riflettere sul senso di questo fenomeno nella nostra società.
Da sempre maestri della provocazione (furono fra i primi ad adottare un'iconografia bellica, scelta che li ha esposti fin all'inizio della loro carriera a critiche di ordine ideologico) ed intenti a cogliere parallelismi fra regimi totalitari e "democrazia" occidentale, i Laibach decidono quindi di prendere di mira il rock, simbolo di una società che ostenta benessere, libertà ed opulenza. Siamo sicuri che non si tratti altro di una parata, il rock intendo, che fa da schermo (come l'intero apparato dell'entertainment) a loschi traffici che ci passano sopra le nostre teste ignare?
I Laibach rispondono disumanizzando il rock, frullandolo nella loro spietata operazione di squartamento sonoro e riconsegnandocelo in una forma "totalitaria", scarna e claudicante, priva di ogni pathos ed intento poetico. La creatività dell'artista viene così sostituita dalla programmazione delle macchine, il canto d'amore di Lennon e McCartney si tramuta in versi robotici e disumani, la gioia libertaria degli happening dal vivo diviene il riverbero di comizi di massa tenuti da folli arringatori.
Avrete intuito che, fra ritmi marziali, possenti orchestrazioni dal sapore wagneriano e incalzanti cori sovietici (vero trade-mark della band), delle composizione originarie a firma Lennon/McCartney rimanga ben poco. La voce cavernosa di Milan Fras completa il quadro, togliendo al tutto ogni traccia di umanità. Il roco canto baritonale di Fras, degno erede di Eldritch (Sisters of Mercy), e punto di riferimento per una miriade di artisti che verranno (dall'EBM al gothic, Rammstein in testa), riesce ad incarnare paradossalmente la megalomania di un arringatore e al tempo stesso l'abbrutimento di un deportato, spogliando dello spleen decadente la tradizione dark da cui evidentemente attinge. E sentendolo cantare non ci possiamo che chiedere: possibile che attraverso il rock parli la voce di un persuasore occulto? Un potere che evidentemente non ha più bisogno di un volto e di una splendente uniforme? Il culto della personalità si trasferisce così all'idolo di turno, il rito dell'appartenenza politica nei gesti ondeggianti del pubblico isterico, che diviene massa delirante che sublima le proprie frustrazioni in un esercizio di annullamento collettivo. E mi vengono in mente la psicologia delle masse di Freud e la sociologia rivoluzionaria di Marcuse.
"Lascia che così sia", non cambiare, non ci pensare: non pensare. Questo sembra essere il nuovo messaggio di "Let It Be" che, beffardamente, non è stata nemmeno inclusa nella raccolta, ennesimo scherzo di cattivo gusto dei Laibach, che decidono di lasciare fuori scaletta proprio il brano più famoso del lotto. Si parte così con una irriconoscibile "Get Back", percussioni incalzanti e tragico incedere, e proseguendo la solfa non cambia: marcescente industrial da cortina di ferro, dove l'unico episodio a richiamare echi beatlesiani è "Across the Universe", per soli cori femminili: una parentesi melodica in un mondo grottesco e minaccioso. Il resto è un macello di campionamenti, drum-machine, canti militari e chitarre distorte che vanno qua e là a contaminare un'impostazione tutto sommato ancora elettronica.
Del resto è il concept stesso a richiedere delle sfumature maggiormente rock-oriented, poiché la creatura Laibach (e lo vedremo bene in futuro in lavori come "Jesus Christ Superstars") non teme di dover cambiare pelle per perseguire i propri intenti concettuali. I Laibach scrivono seguendo una traccia ben precisa (la stessa nascita della band, avvenuta nel 1980, l'anno della morte di Tito, assume una forte valenza simbolica), i loro album sono saggi a tesi e l'apoteosi del nuovo sound si ha in "I've got a Feeling", che riproduce gli umori di una performance dal vivo, con tanti di pubblico acclamante, andando così a rinnegare (apparentemente) la vocazione elettronica della band.
I suoni (siamo nel 1988) sono in realtà scarni e rozzi e potrebbero risalire a cinque anni prima, ma anche questi fanno il gioco dei Laibach, che sapientemente vanno a ricreare le atmosfere tese e pachidermiche di un'enorme macchina burocratica che schiaccia inesorabile l'individuo e le sue emozioni. Alienazione, quindi, ma anche il puzzo soffocante del vapore, la ruvidità della ruggine, il peso insostenibile delle acciaierie che vanno ad assecondare gli imperativi incontrovertibili della Macchina. A chiudere le danze troviamo l'unico pezzo che non è dei Beatles: la marcetta "Maggie Mae", rivisitazione di un'aria della tradizione popolare slovena.
Per prevenire ogni osservazione di ordine ideologico, è importante chiarire che i Laibach, contrariamente ad altre formazioni dedite alle medesime atmosfere, fanno proprio lo spirito provocatorio dell'industrial degli esordi, che mostra ed estremizza proprio ciò che s'intende demonizzare. Tacciati come simpatizzanti sia della sinistra estrema che della estrema destra, la vera chiave di lettura dell'arte dei Laibach si rinviene nell'intento satirico. E se è vero che i Nostri, portando all'estremo lo spirito provocatorio, hanno saputo beffardamente camminare in bilico sul filo dell'ambiguità (celebre l'affermazione di Fras: "We are fascists as much as Hitler was a painter"), è anche vero che penetrare nella testa di chi la dittatura l'ha vissuta davvero, e per giunta in un contesto incasinato quale è stato (ed è tutt'ora) l'ex-Jugoslavia, è cosa davvero ardua.
A render ancora il tutto più confuso è il fatto che l'arte visiva dei Laibach (le copertine degli album, i poster, ma anche le immagini proiettate durante i concerti - ricordiamoci che i Laibach nascono come progetto multimediale) si rifà all'arte di Helmut Herzfeld (aka John Heartfield), artista tedesco antinazista e comunista, noto per i suoi fotomontaggi satirici volti a ridicolizzare la propaganda del Terzo Reich.
Che i Laibach ci stiamo solamente prendendo per i fondelli? Nel dubbio, non resta che asservirci al potere della Macchina. Lunga vita ai Laibach!
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