I Lake Of Tears rappresentano una delle realtá maggiormente sottovalutate (a torto) delle panorama metal internazionale e ci proposero con questo "Headstones", datato 1995, uno degli esempi meglio riusciti di gothic-metal di matrice nordeuropea.
Formatisi nei primi nineties gli svedesi diedero alle stampe il debutto "Greater Art", roccioso e malinconico platter pregno di influenze britanniche (Paradise Lost su tutti) e di quel tocco di decadenza tipico degli acts scandinavi tanto in voga nel periodo d'oro del genere. Il lavoro in questione ne amplia le vedute, abbracciando un utilizzo di copiose ma non ingombranti tastiere, di uno stile vocale piú ricercato e melodioso e soprattutto di quelle atmosfere epiche, molto suggestive che prenderanno piede con prepotenza nel successivo, rockeggiante "A Crimson Cosmos".
Le danze vengono aperte dall'anthemica e solidissima "A Foreign Road", guidata nei meandri di foreste nebbiose da un ottimo riff sabbathiano, lento e marmoreo come pochi, al quale si aggiunge l'ugola roca e vibrante di Daniel Brennare (mastermind e chitarrista ritmico) abile nel dipingere i paesaggi tristi e decadenti che vengono alla mente ammirando lo splendido cover-artwork del geniaccio Kristian Whålin.
Ci si addentra nel lato piú armonioso del combo con la seguente "Raven Land", davvero espressiva nelle sue delicate tastiere intoduttive duettanti con la sei corde dalle meravigliose distorsione acustiche. In questo frangente apprezziamo vocals vellutate e maestose che drammaticamente sfiorano il growling nel ritornello epico, dolcemente notturno. Un vero gioiellino che servirà da fonte d'ispiarzione per molti after skiers negli anni a seguire!
Archiviate le virate rock'n'roll dell'orecchiabile ed originale "Sweetwater" la band ci diletta con il vero picco qualitativo di quest'opera, la ballad "Headstones", intrisa di quel romanticismo anglo-scandinavo irresistibile e che si segnala come una delle migliori testimonianze di un certo fare musica, tipico dell'ultima ondata di artisti originali di questo filone. Il riff acustico lacrima soave, la voce si erge solitaria su un tappeto d'avorio sinfonico ed apocalittico, declamando liriche "esteticamente" assai pessimiste, un vero viaggio tra i silenti sentieri delle colline boscose nordeuropee.
Nel proseguire troviamo l'avvincente abbinamento di atmosfere pop e grunts chitarristici doom-metal nella variegata "Twilight" per ritornare al classico riffing aggressivo ed acido di "Burn Fire Burn", dominata da leads che si rifanno ad un certo approccio hard-rock dalle stravaganti dissonanze. Da segnalare anche gli efficaci mini-solos degli axemen, carichi di spunti melodici e mai ridondanti.
Un gran finale ci attende con la mega-suite "The Path Of The Gods (Upon The Highest Mountain Part 2)", lunga ed avvincente nei suoi oltre 13 minuti di doom-gothic e psichedelia sognante. Meravigliosa l'intro languidamente adagiata su keys davvero maestose, per un susseguirsi di riffoni á la Candlemass sonnacchiosi ma profondi e penetranti. Trovano posto anche brillanti inserti pianistici, toccanti narrazioni di brulli paesaggi autunnali per un tutt'uno perfettamente riuscito che fá sembrare la traccia in questione assai immediata nonostante il suo protrarsi.
Da segnalare la perfetta produzione dei Wavestation Studios di Ulf Pettersson, un suono cristallino nel quale gli strumenti risultano nitidi ed abilmente amalgamati, a dimostrazione della professionalitá dei nostri a discapito dei budgets risibili del periodo. In definitiva un lavoro che merita un vostro ripescaggio, anche per poter apprezzare chi ha, in silenzio, posto le basi per un genere nato con prospettive importanti e che vive al giorno d'oggi solo ed esclsuivamente sui lavori delle vecchie bands (Tiamat docet, per fortuna).
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