Sovente vado alla ricerca di segni o pretesti che possano far scaturire quel meraviglioso meccanismo della nostra mente che è la "memoria involontaria". In cima alla graduatoria, di suddetta attività psichica, per mia esperienza, dopo i profumi colloco i suoni. Perchè, a chi non è capitato di ascoltare musiche che direttamente o indirettamente lo hanno proiettato in una dimensione emozionale retroattiva, di indefinibile decifrazione? Ebbene questa pratica esistenziale dalle radici onanistiche, ha il potere di contribuire al recupero dei tratti identificativi della nostra esistenza. Noi andiamo avanti guardandoci continuamente indietro, senza stancarci, alla ricerca delle "nostre emozioni remote" rimosse dalla noia e dalla frenesia della quotidianità, da inserire come tessere mancanti nella nostra storia. "Ala recherche du temp perdu" o in altre parole, per ricordare a noi stessi, chi siamo, quando ci perdiamo, tutto è in questo. Solo così attuiamo la nostra "salvezza". La musica è una delle arti taumaturgiche (forse la più efficace) per la sua natura irrazionale, non investendo direttamente la logica tipica del linguaggio (significante/significato) a portare in superficie la "verità", senza pretenderne la spiegazione. A quel punto noi possiamo "giocare" con essa, senza correre pericoli di sorta (a differenza della psicoanalisi), creando una "nuova esperienza conoscitiva".
Questo mi accade ogni qualvolta ascolto un soundtrack come "Bullitt", movie di Peter Yates, interpretato da Steve McQueen e composto dal grande compositore argentino Lalo Schifrin nel 1968. Penso sia doveroso presentare comunque Lalo Schifrin, alla massa di sbirciatori della rete, ma non ai molti appassionati cultori di cinematografia che popolano i corridoi del fermentoso Debasio. Schifrin è noto sopratutto per aver composto l'inconfondibile tema della serie televisiva americana "Mission Impossible". Ma non tutti sanno che è sopratutto, geniale compositore di innumerevoli colonne sonore e composizioni varie, ha inoltre collaborato con musicisti di varie estrazioni musicali, abbracciando tutti gli stili, anche l'avanguardia. Ricordiamo qui il prestigioso sodalizio con Dizzy Gillespie nel 1960, come pianista nel suo quintetto newyorkese, dove compose due pezzi per il grande trombettista jazz, che vanno ad arricchire la sua lunga e talentuosa carriera. Diplomatosi a Parigi in pianoforte e composizione, frequentò qui, nientemeno che i corsi di Olivier Messiaen (punto di riferimento per molti musicisti contemporanei, tra cui Robert Fripp), acquisendo l'originalità compositiva e la propensione all'uso disparato degli strumenti musicali.
"Bullitt", film drammatico-poliziesco, è terreno fertile per dodici interessantissime tracce, atte a vestire i ben noti fotogrammi, ma qui ciò che conta è la sua decontestualizzazione, che ci permette di lasciar fluire tutto il potenziale espressivo ed evocativo del suspense-jazz fiatistico, magistralmente arrangiato da Schifrin, a iniziare dalla prima traccia "Bullitt (Main Title)" che ci coinvolge (incluso il sottoscritto) in un transfert epocale, dall'alto contenuto immaginifico; una specie di macchina del tempo e dello spazio, estraniante e rivelatrice dell'"American Dream" degli europei invaghiti. Non è necessario aver gli anni, tanti, per appartenere a questa musica, l'effetto coinvolgente si esplica in tutti i modi, da quell'"inconscio collettivo" che ci accomuna. La metropoli, il caos, ma anche, l'intimismo e la sensualità, approdano nella stanza delle nostre attese. "Ice Pick Mike" appartiene al dualismo tutto americano, sospeso fra affascinante vertigine dei grattacieli assiepati e fuga esasperata verso i grandi spazi extra urbani, "verticale versus orizzontale" direbbe qualche intellettuale strutturalista. Notevole è lo swing per flauto di "A Song For Cathy", anticipato da una sequenza di accordi pentatonici per chitarra elettrica. In "Shifting Gears" si mantiene alto lo stato di tensione, senza mai eccedere nel panico, anzi sempre, l'evoluzione dei pezzi in Schifrin è controllata da un forte rigore stilistico e da una narrazione musicale dalla non scontata infatuazione emotiva. I momenti rilassanti della rassicurante "The First Snowfall" cullano l'ascoltatore verso il finale di "Bullitt (End Title)", riproponimento dello splendido motivo iniziale per chitarra elettrica in chiave blues swingato.
Per concludere diciamo che "Bullitt" nella sua discontinuità sequenziale, per sua natura (essendo nato per una logica filmica), è una metafora della memoria, intesa come meccanismo che emerge alla luce della nostra coscienza ad intermittenze apparentemente scollegate, che fungono da riferimenti emozionali, da cui è possibile attuare quella rimonta costruttiva della nostra storia. Ovvero, i miti non cessano mai di sorprendere nella loro indispensabilità. A mio onesto parere, immancabile!
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