Che schifo le giornate uggiose a Milano. Tristi come le passioni che diventano flebili, stanche, così che ciò che stringi la sera non è altro che sopore e propositi sfumati. E il cielo fuori che non t'incoraggia; inizi a pensare che invecchiare dev'essere una cosa del genere, nullificati gli impeti a tirarsi su la coperta aspettando semplicemente il mattino, ancora e poi ancora.

Kurt Wagner sostiene la mia malinconica nostalgia, nostalgia di non so bene cosa, dato che in estate chiamo l'inverno e in inverno chiamo l'estate. Lui che sta così bene nel suo ruolo di outsider, tra presente e passato, cantore dell'America d'altri tempi o l'America forse solo immaginata, nelle morbide veste di raffinato compositore di pop cameristico. Sulla sua tavolozza country, folk, e leggerissimi accenni al jazz, il tutto sapientemente intrecciato con cura tale da non essere mai straripante.

Anzi sentendo i suoi dischi sembrerebbe proprio che attorno non succeda nulla, che le storie umane siano solo un goffo affaccendarsi per fare più rumore possibile, consumarsi per non sentirsi soli. Sono dischi sospesi, tanto lenti e impalpabili da sembrare la visione in negativo della realtà moderna.

Come nella dolceamara "Slipped Dissolved And Loosed" dove c'è l'abisso ma non il dramma dell'abisso, c'è la natura per nulla rumorosa di un singolo uomo smarrito, intrecciato nell'acustica dolce di una chitarra consumata e una voce femminile che, in punta di piedi, sembra volerti sussurrare che va bene così, che una storia tra mille è proprio la tua, persa nella nebbia in cui gli altri non guardano che di rado. Qui non ci sono effetti speciali, il tutto sa di vino bianco e di giornate in cui si fissano le gocce scivolare sulla finestra, sfregandosi le mani nella propria casa calda.

Apparentemente si potrebbe parlare di lavoro privo di passioni, scorgibili di tanto in tanto nei sussulti della voce distaccata di Wagner, che da navigato crooner autunnale disegna paesaggi sfumati e acquerellati. Non è così, è solo che nulla è sbattuto in faccia o calcato come si conviene a ciò che vuole piacere, che cerca approvazione. Questo disco è sincero, calibrato, essenziale.

Ci si perde spesso tra queste note, come all'entrata del sax in "Of Raymond", o in "Please Rise", e il pensiero si fa tutt'uno col flusso della musica, tra armonici, batteria appena accarezzata e note di piano parsimoniosamente centellinate.

Il tutto alla fine, nel suo essere dolente e dolce al tempo stesso, si nutre della ricerca, in tutta la sua semplicità, dell'accordo semplice e funzionante, dell'equilibrio tra gli elementi. E basta un pezzo come "Close Up", per cui mi sentirei di parlare di semplice bellezza e di bellezza della semplicità, per farsi un'idea sul disco.

Non è difficile comprendere il perchè un lavoro come questo sia passato quasi inosservato e mi ritrovi a parlarne a un anno dalla sua uscita. Però credo che tutti di tanto in tanto si meritino un disco così, aldilà del cielo, di Milano e di stati d'animo facilmente mutevoli.

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