Dove si parlerà di Dio e di copertine sbagliate.
Perché è vero che non si dovrebbe mai giudicare un disco, né tantomeno un libro, dalla copertina, ma questa - perdio - questa è davvero brutta!
La prima volta che vidi questa copertina fu in un grande negozio di dischi della mia città e mi provocò un’alzata di spalle ed un ghigno di scherno. Lo so ero sciocco, ma ero giovane, troppo giovane – solo questo posso dire a mia discolpa – perché questa è roba da adulti, ed io correvo ancora appresso ai brutti e cattivi, agli sperimentatori, alla weirdness, ai dropouts; cazzo come ero giovane, giovane e coglione.
Ma, in fondo, tutti cavalchiamo nella vita come Ringo Kid in “Ombre Rosse” , e come lui abbiamo tutti diritto ad una seconda occasione.
E la mia seconda occasione arrivò in un piccolo negozietto di dischi ad Amsterdam. Fu lì che lo rividi e, cavolo, ormai ero un po’ più adulto e sfangato e, insomma il nome Lamont Dozier avrebbe dovuto dirmi qualcosa, porca puttana ero in Olanda! Holland! SVEGLIA COGLIONE: Holland-Dozier-Holland!
Perché è così che funziona: Dio –che è nero/a e canta il Soul – ci ama e ci mette sulla retta via, ci guida, ci indica la strada. Ma poi c’è sempre il Libero Arbitrio, cioè quella cosa che Lui ti dice: “ecco, fai così”, “vai di là” eccetera; ma che poi sei sempre tu che decidi cosa fare e, quindi in ultima analisi, sei sempre il solo responsabile delle tue cazzate. Quindi sarebbe toccato a me fare due più due: ricordarmi che non è che King facesse di nome Goffin, o che Battisti facesse di nome Mogol, o Jagger di nome Richards…..
Se mi fossi fermato a pensare, se fossi andato anche oltre il titolo (perché pure titolarlo “Black Bach” non è stata certo una genialata da poco! Peggio di così, forse, solo l’artwork del secondo dei Kraftwerk) magari avrei provato ad ascoltarlo. E allora, magari, mi sarebbero bastate le prime note dell’opener “Shine”, quelll’ostinato di piano seguito da una chitarra strisciante e poi – boom – uno scoppio d’archi che prelude ad una voce ruvida e sexy (per non dire di tutto quello che succede dopo), oppure potevo ascoltare “Rose” , così calda e sinuosa, o comunque una qualunque di queste dieci sciccherie per capire che non era la brutta copia della “Quinta” di Beethoven in versione Disco di quel cazzone di Walter Murphy, come io – che il Signore mi perdoni – avevo incautamente pensato. Così me ne uscii con un bootleg (registrato col culo) dei T. Rex che ora giace a casa di una qualche tipa di cui non ricordo nulla dove l’avrò portato per fare colpo.
“Black Bach”, come avrei scoperto solo anni dopo, è il secondo disco solista di Lamont Dozier, nel 1974 il nostro Lamont decide di dare un seguito al debutto a suo nome “Out Here on My Own” dell’anno prima che, diciamoci la verità, non è che proprio avesse fatto il botto. Ma si può dire di no a uno che ha scritto cose come “Baby love”, You Can’t Hurry love”, “Reach Out I’ll Be There”, “Nowhere To Run” (e si potrebbe continuare per un bel po’)? Allora Berry Gordy gli da carta bianca, la Motown si era trasferita da meno di due anni dal grigio di Detroit al sole di Los Angeles, e Lamont ha a disposizione gli studi californiani della ABC. Il nostro non se lo fa dire due volte ed esagera: chiama orchestrali, coriste, un numero imprecisato di musicisti, da sfogo a tutte le idee, anche improbabili, che gli vengono in mente. E giù arrangiamenti pachidermici e barocchi, trucchi di studio, sezioni ritmiche obese (ora si spiega un po’ di più quel titolo!), neanche fosse un Brian Wilson di colore alle prese con il suo “Smile”. Ma Lamont non è Brian Wilson e, alla fine, mantiene il controllo e quando il disco è pronto non c’è niente fuori posto (tranne, purtroppo, copertina e titolo): il disco è un capolavoro, magari un capolavoro minore, ( cioè non è un “What’s Goin On” o un “There’s A Riot….”) , ma pur sempre un capolavoro. Solo che non se ne accorge quasi nessuno, per dire il disco non sarà ristampato in cd, se non vado errato, fino al 2010. Ma Lamont se ne fotte, lui ha mandato cinquanta (dico 50!) titoli al primo posto in USA, può fare quello che gli pare. E infatti l’anno dopo fa un altro disco “Love and Beauty” , e altri ne farà – undici - fino al 2004.
Ma io dovetti aspettare ancora qualche anno per scoprirlo, perché Dio è buono e ti ama, ma se sei fesso devi pagare. Così mi toccò ancora qualche anno di Purgatorio, tra chitarroni distorti e inni da cameretta, gruppi con trombone e martelli pneumatici e poeti con l’ukulele, post-qualcosa e nu-vattelapesca finche il Signore – che è nero/a e canta il Soul – non ebbe pietà di questo povero miscredente e puttaniere e mi diede un’altra possibilità.
Fu a casa di una ragazza svedese (si svedese) che lo rividi, lei aveva due tette che cantavano odi al Cielo ed un naso che era sempre Quaresima, ma nella vita è importante decidere cosa guardare, e fu così che guardai (anche) fra i suoi dischi e – cazzo! – lui era lì. Cosa cavolo ci facesse Lamont a casa di Inga, o Stine, o Greta, (ma come diavolo si chiamava?), non lo so, chissà chi ce lo aveva portato, perché suo non era: in mezzo ai suoi 7/8 dischi faceva l’effetto di un libro di Norberto Bobbio in mezzo all’opera omnia di Federico Moccia. So solo che invece di metterlo su continuai a parlare, e a parlare, e a parlare………..
Così alla fine fui messo alla porta senza neanche che mi venisse offerto un assagino del dolce della casa, mentre sono sicuro che quello che aveva portato lì quel disco aveva potuto giocare primo tempo, secondo tempo e tempi supplementari (e magari pure i calci di rigore), e che se io, magari, avessi messo su una “All Cried Out” o una “Wanna Be With You”, con quel loro andamento così dinoccolato, chissà.
E che finale sarebbe stato! Dopo tutti quegli anni Dio (che è nero ecc. ecc.) me lo aveva fatto trovare là, pronto per farmi vedere la luce, e io e Inga, o Stine, o Greta avremmo cantato le Sue lodi fino all’alba nonostante che il suo naso – e la mia pancia – ci ricordassero che poi c’è pure la Quaresima.
E invece no! Altri anni sono dovuti passare prima che io dopo aver consumato dischi di Marvin Gaye, Martha Reeves, Four Tops, Supremes eccetera mi sia finalmente chiesto: “ma chi sono questi Holland, Holland e Dozier?”
Insomma ci sono voluti trent’anni perché io e “Black Bach” ci incontrassimo, un amore contrastato che, come tutti gli amori difficili poi dura tutta la vita. E, allora, dopo tutti questi anni e questo tira-e-molla ogni volta che metto su “Black Bach” e la puntina comincia a graffiarne i solchi mi viene in mente una storiella che si raccontava a catechismo:
Un tizio molto devoto si trova in mezzo ad un’alluvione, sale sul tetto e comincia a pregare. Dopo un po’, il suo vicino prende un gommone e, prima di andarsene, lo invita a scappare con lui, ma il tizio gli dice che no, lui sa che Dio lo salverà e non c’è bisogno del gommone. Così il tizio ricomincia a pregare finché non passa di lì una barca. Dalla barca lo chiamano ma lui - “grazie, ma non serve: Dio mi salverà”- e quelli se ne vanno. Lui riprende a pregare finché non arriva un elicottero della Protezione Civile, ma anche questa volta il sant’uomo preferisce fare affidamento in Dio e manda via l’elicottero; riprende a pregare e stavolta viene l’ondata di piena e se lo porta via. Il tizio, arrivato in Paradiso va da Dio e con umiltà, ma in tono deciso gli chiede perché Lui non l’abbia salvato, cioè dove aveva sbagliato? Perché il Signore non aveva fatto nulla? Dio lo guarda stupito e gli fa: “come non ho fatto niente! Ti ho mandato un gommone, una barca e pure un elicottero……….”
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