A dieci anni quelle scazzottate pindariche, quei viaggi metafisici, quelle perle di saggezza da guru orientale avevano per me un valore assoluto. Erano la conferma, in nuce, che la realtà intorno non era abbastanza. Che doveva esserci dell'altro, che la squisitezza dell'illusione non toglieva nulla alla sua crudeltà. Che era lecito sognare che il mondo fosse un po' diverso e un po' migliore di questo, salvo scoprire poi che la "realtà reale" era ben più cruda e fredda della dolce allucinazione quotidiana.
A dieci anni quel film l'ho rivisto decine di volte (avevo la videocassetta), tanto che 23 anni dopo ne ritrovo le singole battute, le singole inquadrature, in questo osceno quarto capitolo della saga. Le rivedo come tessere preziose che compaiono baluginando nel lordume di questa nuova narrazione. Il gioco metanarrativo può colpire gli spettatori meno smaliziati, in verità è stratagemma pseudo intellettuale di pura paraculaggine che però in qualche modo riaccende memorie, ha questo merito indiretto di riportarmi là, alla fine del secolo scorso, quando nulla sapevo del mondo ma mi piaceva pensare che non fosse soltanto quello che mi si presentava dinnanzi. Era in qualche modo consolatorio.
L'infondatezza del concetto di realtà, i dejà vu come errori di sistema. I sapori? Sequenze di segnali elettrici inviati al nostro cervello. Non sono cose che si superano facilmente. Ci sono infinite possibilità che questa realtà sia una simulazione all'interno di altre realtà, e va bene così. Potremo anche essere dei Sims in mano a qualche divinità sadica, ma non è questo il punto.
Mi interessa confrontare l'uomo di oggi e il bambino del 1999. Lo stupore estatico, la rivelazione mistica per l'infante corrisponde in qualche modo alla più trita banalità per l'adulto. La matrice che mi ha fatto sua da piccolo, votandomi alla fede nella buona novella postmoderna dei Wachowski, è disgregata e polverizzata oggi nel disinganno completo che mi tiene ben distante dai vortici verbosi e dagli inutili parallelismi meta di questa nuova trappola. Fingendo di mostrarci il disinganno, la chiave di lettura illuminante, Lana Wachowski è la prima a volerci attanagliati nella matrice delle matrici, che è il cinema inautentico e ingannevole come questo. Cinema come perdurare del dubbio fine a se stesso, cinema come negazione del valore conoscitivo dell'arte.
Essere fuori da Matrix oggi per me significa sputare su questa supercazzola inutile, perché in fondo le vertigini esistenziali e metafisiche sono sempre state pretesto buono per nobilitare ciò che forse di per sé non lo era abbastanza. E cioè il crivellare dei colpi, il Kung fu, le città futuristiche, le seppie robot. Ma l'inganno si mostrò tale già nel 2003 e oggi il tentativo di ricostruire uno scenario così ampiamente concluso suona come immane controsenso alle logiche di libertà e autodeterminazione che la stessa regista vorrebbe fare passare. No, Lana. La prima schiavitù, la prima matrice a cui ci ribelliamo è questo cinema senza arte, che per giunta esplicita senza mezzi termini la sua totale devozione a qualcosa di estremamente passato, fingendo una qualche lettura ulteriore che in verità è solo vuoto onanismo. Senza idee non c'è libertà, senza idee restiamo tutti intrappolati in Matrix.
Carico i commenti... con calma