Welcome to our world... Welcome slightly...
Al limitare dell'autunno, quando l'inverno, quello vero, quello che può gelare anche l'anima, sta per fare il suo ingresso, nelle regioni del nord è possibile assistere al fenomeno dell'estate indiana.
Per pochi giorni un dolce tepore avvolge ogni cosa: gli alberi, ingialliti dall'autunno, rifioriscono, gli animali, oramai pronti per un lungo letargo, si ridestano e ripopolano i boschi, le pellicce ed i cappotti pesanti vengono riposti negli armadi e si esce in strada alla ricerca degli ultimi raggi di un pallido sole.
E' una piccola estate che si intrufola là dove non dovrebbe essere, è la beffa dell'inverno che presto imbiancherà ogni cosa, è il sapore del dolce zucchero prima dell'amaro.
La musica dei Landberk è così: sospesa tra la malinconia cremisi dell'autunno ed il gelo di chi il freddo è abituato a portarlo anche nel cuore, tra dolci e soffusi tappeti di mellotron ed evoluzioni chitarristiche frippiane e note lente e cadenzate come il cadere della neve. Progressive.... Ma non quello impetuoso e sincopato, né quello cervellotico ed alieno, ma quello più emozionale e naturale, quello fatto di suoni rarefatti ed ipnotici, di strumenti semplici e poche lancinanti note.
Con gli ÄNGLAGÅRD sono stati i punti di riferimento della rinascita prog svedese, come questi sono scomparsi troppo prematuramente, lasciando pochi dischi testimoni del loro talento.
Landberk è il nome di un fiume nel nord della Svezia, dove il cantante Patric Helje ed il chitarrista Reine Fiske erano soliti recarsi per pescare, non per sport ma per procurarsi il cibo. Ogni aspetto della loro musica è quindi essenziale, creato non per sorprendere ma per colpire direttamente al cuore dell'ascoltatore.
"Indian summer", il loro canto del cigno, è il più accessibile della loro breve produzione, dove la componente progressiva è rarefatta in suoni semplici ed incisivi, tipicamente seventies ma con uno sguardo alla new wave che di lì a poco avrebbe spopolato. Ricordano i King Crimson dei primi dischi, quelli di "Moonchild" o di "Starless" per intenderci. Chi è abituato a lunghe ed estenuanti fughe strumentali, chi fa della bravura autoindulgente il proprio credo, chi ama vestirsi da mago di corte e circondarsi di variopinti organi e tastiere potrebbe addormentarsi dinanzi alle struggenti note della title track, oppure come un cercatore d'oro industriarsi a cercare il virtuosismo in "Humanize" oppure in "Dreamdance" uscendone scontento e deluso.
E' un disco che consiglierei a chi ama i Radiohead più intimisti oppure le nenie dei Sigur ròs, è un disco che vuole essere caldo laddove c'è solo freddo.
Qui non c'è nessun protagonista: anche la sapiente chitarra di Fiske, che rimanda ora al Fripp degli esordi, ora al The Edge periodo "Unforgettable fire", sta lì in disparte a fare i propri disegni, i propri ghirigori. Qui protagonista è solo la musica, lineare, ora malinconica, ora fredda, ora calda come quel pezzettino d'estate.
Carico i commenti... con calma