Quello che vi presento è un album di Jazz elettrico che ha da sempre incontrato i gusti di certa platea Rock e dei cultori del Blues psichedelico a cavallo fra '60 e '70. Era il 1971, e "Barefoot Boy" consacrava (a ideale suggello della prima, sperimentale fase di carriera) il talento di un chitarrista fenomenale, destinato ad avere grande influenza su tutta la scena Fusion dei decenni successivi: la sua importanza storica è vicina a quella di un McLaughlin, la sua tecnica è quella di una personalità di confine sfuggente, complessa, indefinita e indefinibile, anche quando la critica (fino a tempi recenti, peraltro) ne ha parlato come un "Reinhardt dei nostri tempi". A Django lo avvicinano la passione, la professionalità, il talento cristallino; ma anche l'imprevedibilità, la caotica irregolarità del fantasista, del "creativo", del ricercatore a oltranza. Certo è che i suoi dischi degli anni Settanta - ma anche i successivi sanno dire la loro - rimangono testimonianze straordinarie di un musicista "totale".
Avete bisogno di un'etichetta, per quanto approssimativa essa sia? Ebbene, io vi dico che se il "bluesman" è colui che sa esplorare, esaltare al meglio il lato più oscuro e demoniaco della propria musica, il Coryell del primo periodo era un bluesman a tutti gli effetti, uno che sapeva "far parlare" la chitarra, assegnandole inedite possibilità e margini espressivi. Ripercorrendo inoltre le tappe della sua produzione si avverte la palese sensazione - considerando anche il breve lasso di tempo fra un'uscita discografica e l'altra - di una corsa senza sosta, di un frenetico e continuo muoversi alla ricerca di un nuovo spunto, di una nuova motivazione; la sensazione di un "atleta dello strumento" costantemente impegnato a spostare l'asticella più su, a imporsi (e ad imporre) traguardi sempre più alti.
"Barefoot Boy", per la cronaca, è il terzo album di Larry; esce (quasi in sordina) per la Flying Dutchman Records, società satellite della ben più nota Impulse!. Ed è una prova di grandezza come poche, considerando anche il periodo e lo stadio pressoché embrionale della nuova Fusion; a far la parte del leone è una sconcertante rilettura di "Gypsy Queen" di Gabor Szabo, originariamente inclusa dall'ungherese sul suo "Spellbinder" e poi consegnata alla leggenda da Carlos Santana in "Abraxas"; un brano estremamente familiare, dunque, alla platea Rock. Ma la cosa che pochi si sarebbero aspettati, prima di mettere il disco sul piatto, era che QUESTA versione, quella di Larry, superava per intensità e creatività sia quella del Maestro gitano sia quella, latineggiante e convulsa, di Santana. Prima soluzione scelta in sede di incisione: fare clamorosamente a meno del basso (presente negli altri pezzi, ma non in questo). Ma come si poteva rinunciare al basso in un pezzo che proprio dal suo groove bassistico originario traeva gran parte della propria sostanza...? Incredibilmente, è la stessa chitarra che nella prima parte si sostituisce al basso sostenendo la ritmica con le corde più gravi, conferendo al pezzo un "appeal" singolarmente aggressivo e metallico. Seconda soluzione: reclutare un batterista d'esperienza che sapesse eseguire alla perfezione, e per una durata di oltre dieci minuti, l'immane lavorio ritmico che lo svolgimento di una "Gypsy Queen" che si rispetti imporrebbe; e seduto dietro i tamburi è una leggenda vivente della batteria, Roy Haynes, che coadiuvato dal percussionista Harry Wilkinson sa esprimere a suon di colpi (in un perfetto mix di durezza e precisione) la frenesia tribale di un pezzo che è di per sé un'orgia sonora; la tribalità della Jam che si costruisce e si sviluppa sul tema di questa leggendaria "regina gitana" si esprime in musica nella sua ripetitiva, ossessiva monotonalità (Szabo elaborò il tutto sulla base di un semplice accordo di Re). Ad aprire le danze è il sax travolgente di Steve Marcus, ma è al minuto 4:20 all'incirca che si verifica il passaggio più sconvolgente dell'intero album: l'entrata devastante della chitarra, inesorabile, simile a uno sciame di vespe inferocite; è inaudita la cattiveria con la quale Larry aggredisce le corde estrapolando dal proprio strumento l'impossibile, preannunciando a tratti le progressioni "spaziali" del Mike Stern di dieci anni dopo; è un furioso e inarticolato fraseggio al wah-wah (al pedale Coryell è maestro), il tutto mentre (fra stacchi e pause imprevedibili) il Nostro esplora i remoti angoli dell'improbabile: non si può credere a ciò che si ascolta.
Ma non è tutto, perché nel finale i due solisti (sax e chitarra) ingaggiano una lotta tremenda, strangolandosi a vicenda fra contorsioni e spasimi allucinanti, per una sezione di enorme effetto psichedelico. Tutto è magistralmente perfetto, fino alla conclusione giocata sui ruggiti (riverberati) del leader.
Basterebbe questo, direte voi, e invece l'album comprende anche quell'acidissimo R'n'B (opera di Coryell) che è "The Great Escape" (venato di Funk e molto esotico, peraltro) e un intero secondo lato occupato dalla monumentale "Call To The Higher Consciousness": qui gli accordi di base sono tre, anziché uno, ma la jam session che ne risulta è destinata ad appagare l'ascoltatore totalmente; tanto Blues nello spirito, tanto Jazz nell'esecuzione, e l'immancabile assolo di batteria di Roy Haynes, fino a che Larry chiude in grande stile riprendendo l'assolo ed eseguendo UN TRILLO (A VELOCITA' CRESCENTE) DELLA DURATA DI 30 SECONDI!!! Impossibile commentare, si può solo ascoltare: è qualcosa di sovrannaturale.
Serve altro per convincervi all'ascolto di questo disco...?
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