Io non so come James Murphy possa pensare di ingannarci. Voglio dire, è tutto così palese. Che cosa? Che stia invecchiando a vista d’occhio, e con lui anche la sua sensibilità artistica, ormai ripiegata nel solito clichè da hipster vecchio e malinconico, ex-re del dancefloor nostalgico ma troppo edgy per rinunciare alla sua coolness da newyorkese stronzo e snob.
A essere onesti, un senso di forte caducità, di decadenza, lo si percepisce in questo 'american dream', quarto album a nome LCD Soundsystem. Il tempo passa, le energie scemano, così come le speranze di vedere realizzato "il sogno americano”, qualunque esso sia. L’invecchiamento fisico è comprensibilmente fonte di innumerevoli riflessioni, su ciò che è passato e ciò che non arriverà mai. E soprattutto su ciò che si è, così che la domanda sorga spontanea: cosa sono, oggi, gli LCD Soundsystem? Badate bene: non cosa sono stati nella golden-era dell’indie rock (2005-2009, su per giù), non cosa lasceranno in eredità, ma cosa sono qui ed ora. Questa è la domanda.
Gli LCD Soundsystem, oggi, sono una band pessima. Non ci deve essere cieca gratitudine (per che motivo poi?) per ciò che sono stati, bisogna analizzare il loro presente. Un presente di band stanca e triste, affannata e goffa, costretta a rifugiarsi nei banali e comodi terreni a prova di critica: la new-wave byrniana, il post-punk, le percussioncine e i synthini indie-disco (ormai vintage anche loro), l’ossessività kraut. Ah, e ovviamente il cantato da papà saggio e malinconico di Murphy, con quell’aria da crooner finto-capitato-per-caso ma ben consapevole delle sue pose e della sua immagine. Ripeto: è tutto tremendamente triste e patetico.
‘oh baby’ comincia proprio come ti aspetti che sia un opener di un disco degli LCD: percussione sorda, metallica, sovrapposta progressivamente ad altre di simile natura, fino all’ingresso del solito cazzo di sintetizzatore, sempre grattato-morbido-tellurico, roba che dopo quel trionfo di ‘Someone Great’ speravo sarebbe rimasta relegata a quell’epoca, a dieci anni fa insomma, quando un recupero in chiave intellettualoide di certa roba anni ’80 poteva ancora aver senso. ‘american dream’ si presenta fin dall’inizio come una rivisitazione assolutamente fuori tempo massimo di un suono che già nel 2005 suonava pericolosamente derivativo: oggi il pericolo si è fatto atto, e si è concretizzato in un disastro, uno strascico di ciò fu, tronfio di nostalgia di plastica e autocompiacimento.
Inutile dire che il resto del disco tolga definitivamente la voglia di vivere. È proprio roba deprimente, come visitare un museo di provincia ad agosto solo per rifugiarsi dal caldo insopportabile: una visita in cui, insomma, non ti frega nulla di ciò che stai vedendo, stai solo vagando come uno zombie in attesa di uscire allo scoperto e morire sotto il sole. ‘american dream’ è come rifugiarsi nel ricordo di quelle estati di merda della pre-adolescenza, in cui non potevi fare nulla per evadere dalla monotonia. Non vedo perchè ripercorrere sensazioni del genere, annichilenti ogni forma di vitalità. Potrei fare l’analisi pezzo per pezzo di questo scempio di disco, ma non serve che sia io a dirvi quanto ‘call the police’ e ‘american dream’ (la canzone) siano rivisitazioni mediocri dei vecchi successi degli LCD e quanto 'other voices' sia un copia dei Talking Heads di 'Remain In Light', come non serve che sia io a dirvi che ‘tonite’ e ‘black screen’ siano, con toni diversi, parimenti delle interminabili asciugate di palle.
‘american dream’ è un’accozzaglia di idee pessime, di canzoni carenti di inventiva, capace solo di crogiolarsi in una visione compositiva che assolutamente nel 2017 non può più reggere, in nessun modo. Avete davvero bisogno di rispecchiarvi nelle parole di un quarantasettenne depresso per poter dar forma al vostro disagio? Avete bisogno di una voce così rinunciataria a parlare per voi? Io no, cazzo, ma voi fate come vi pare!
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